Il Carmelo e San Giuseppe

La Santa Madre Teresa  affiderà al Patriarca San Giuseppe la sua vita spirituale, la sua vita di orazione, tutti i problemi dei suoi monasteri e, infine, della Riforma. A lui attribuirà la propria prodigiosa guarigione da quel male misterioso che l'aveva tormentata per tanti anni; a lui dedicherà il primo monastero e altri che fonderà; a lui ella si rivolgerà, nei momenti di difficoltà, per risolvere i casi più difficili fino ad affermare che mai si era rivolta al Patriarca San Giuseppe senza essere stata esaudita. Dirà che i suoi monasteri saranno guardati da una porta dalla Madonna e dall'altra da San Giuseppe. E questa eredità continua nel Carmelo Teresiano. 

 

Nel sesto capitolo della Vita la Santa Madre scrive:

"Io lo presi per mio avvocato e patrono, il glorioso San Giuseppe, e mi raccomandai a lui con fervore. Questo mio padre e protettore mi aiutò nelle necessità in cui mi trovavo e in molte altre più gravi, in cui era in gioco il mio onore e la salute dell'anima.

Ho visto chiaramente che il suo aiuto fu sempre più grande di quello che avrei potuto sperare.

Non mi ricordo finora d'averlo pregato di alcuna grazia senza averla subito ottenuta. Ed è cosa che fa veramente meraviglia il ricordare i grandi favori che il Signore mi ha fatti ed i pericoli sia di anima che di corpo da cui, per l'intercessione di questo Santo, mi ha liberata.

Sembra che ad altri Santi Iddio abbia concesso di far grazia in questa ed in quell'altra necessità. Il glorioso San Giuseppe, invece, ed io lo so per esperienza, estende il suo patrocinio sopra qualsiasi bisogno.

Il Signore vuol farci intendere con ciò che, a quel modo che era a lui soggetto in terra, dove come padre e custode gli poteva comandare, così fa ancora in cielo quanto gli domanda.

Questo d'altronde hanno riconosciuto per esperienza anche altre persone che dietro il mio consiglio si raccomandarono al suo patrocinio, e sono molte le anime che si sono fatte da qualche tempo sue devote per avere esperimentato questa verità".  

 

In San Giuseppe, nel suo silenzio, nella sua solitudine interiore, nello spirito di contemplazione e di orazione costanti, troviamo un legame profondo con il Carmelo.   

Nell'esortazione "Redemptoris Custos" Papa Giovanni Paolo II riflette a lungo sul silenzio di Giuseppe, al numero 25, scrive: "È un silenzio che svela in modo speciale il profilo interiore della sua figura. È l'uomo dell'interiorità, l'uomo capace di vivere in una profonda contemplazione". San Giovanni Climaco chiama il silenzio "padre dell'orazione", in perfetta sintonia con l'intuizione di Santa Teresa di Gesù di scegliere per padre e maestro di orazione il grande e silenzioso S. Giuseppe. San Giovanni della Croce quando tratta dell'orazione unitiva, contemplativa, definendo lo stare in orazione "avvertenza amorosa in Dio" sostiene che essa è possibile quando tacciono le potenze dell'anima. Sappiamo, anche dalle lettere, quanto il Santo esortasse al silenzio e alla solitudine le persone da lui guidate "... è impossibile camminare con profitto, se non si procede operando e soffrendo virtuosamente, tutto avvolto nel silenzio. Tenete per certo, o figlie, che l'anima la quale facilmente parla e conversa, sta poco raccolta in Dio. Infatti quando lo è, da una forza interiore ella è portata a tacere e a fuggire qualsiasi conversazione, poiché Dio vuole che ella trovi la sua gioia più nello stare con lui... tacere dinanzi a Dio, il cui linguaggio, che Egli solo ode, è l'amore silenzioso" (Lett. 8). Il silenzio di Giuseppe è tutto interiore, proprio dell'anima che pensa e si occupa unicamente di Dio. In lui, scrive Montan, si trovano i tratti evangelici che sono richiesti ai cristiani e alla Chiesa di tutti i tempi: ascolto della Parola e disponibilità assoluta a servire fedelmente la volontà salvifica di Dio rivelata da Gesù.

San Giuseppe, vive nella contemplazione costante della Verginità di Maria, nella contemplazione dell’Incarnazione del Verbo e del mistero di Dio fatto Uomo e, da questo puro amore di contemplazione, nasce in lui l'amore altrettanto puro del servizio nel compimento della sua missione esterna, consistente nel proteggere Maria e il Bambino e nel vigilare su di loro. La sua vita è tutta “un’orazione”, nel senso più teresiano del termine, perché vissuta interamente in quest’amore di amicizia, di incontro, di dialogo, di compagnia costante e continua con Gesù. Giuseppe ci insegna a contemplare Nazareth per crescere nella comunione d'amore con Dio e il prossimo, per vivere in quotidiano "contatto" col mistero divino, nel mistero del Dio Uno e Trino per adorarlo nel silenzio delle nostre anime.  

 

Il  Carmelo ed il profeta Elia

 

Così si esprimono la Regola e le Nostre Costituzioni.

Alberto, per grazia di Dio chiamato patriarca della Chiesa di Gerusalemme, ai diletti figli in Cristo Brocardo e agli altri eremiti che sotto la sua obbedienza dimorano sul monte Carmelo, presso la Fonte di Elia, salute nel Signore e benedizione dello Spirito Santo. (Regola primitiva, n.1)

 

Papa Giovanni Paolo II nel Discorso del 29 settembre 1989 ai Carmelitani ha detto: 

"L’eredità dell’Ordine è legata alla prima chiamata di quegli eremiti che, nel Monte Carmelo, si davano alla contemplazione e alla solitudine; essa ricorda come l’Ordine si è messo al servizio della Chiesa e del Vangelo; ha testimoniato attraverso i secoli i valori della vita religiosa, imitando il profeta Elia, e Maria, splendore e madre del Carmelo, ascoltatrice attenta della Parola di Dio, solidale con il Popolo dell’Alleanza e con la sofferenza degli oppressi di ogni genere.

La profezia del carisma dell’ordine si rifà ad Elia, appassionato assertore della presenza viva di Dio nella Storia e negli eventi. I Carmelitani, gli unici nell’Occidente che celebrano la festa e il messaggio di Elia, sono chiamati ad essere profeti e testimoni nella "notte oscura" dello Spirito che la nostra società sta vivendo. L’esempio zelante di Elia deve risvegliare in tutta la Famiglia carmelitana uno sguardo vigile di fede profonda, sulla situazione attuale dell’uomo e sulle minacce che ne avvelenano l’ambiente e le radici stesse della vita: il suo rapporto con Dio, il senso della vita, del lavoro, della giustizia e della oppressione, della dignità autentica di ogni vivente.

La sfida poi rivolta all’Ordine del Carmelo nel suo viaggio verso l’anno Duemila è la stessa che è di fronte a tutta la Chiesa: di offrire al mondo secolarizzato il volto di Cristo come fonte di speranza e di dignità. È una sfida di fede che lancia tutta la Chiesa verso un futuro sconosciuto, ma certamente pieno di potenzialità e ottimismo per il Regno di Dio. Il Carmelo deve portare il proprio contributo, camminando in compagnia di ogni uomo e donna, verso le sfide che, in dimensioni ormai cosmiche, l’umanità si trova ad affrontare".

Anche Santa Teresa di Gesù e San Giovanni della Croce hanno custodito e rivalorizzato l’esperienza originaria del grande profeta:

"Il sibilo delle aure amorose…" Proprio perché questo sibilo significa l’intelligenza sostanziale, alcuni teologi pensano che il nostro padre Elia, mentre era sul monte, abbia veduto Dio in quel sibilo di aura soave che egli sentì presso l’apertura della sua caverna. (Giovanni della Croce, Cantico Spirituale B, 13.14).

Anche Santa Teresa Benedetta della Croce ha  amato molto il profeta Elia. Commentando un passo della Regola carmelitana ella scrive:

"Meditare nella legge del Signore" può essere una forma di preghiera quando assumiamo la preghiera nel suo ampio senso abituale. Ma noi pensiamo al "vigilare nella preghiera" come all'inabissarci in Dio, come è proprio della contemplazione, allora la meditazione ne è solo una via". Vegliando in preghiera, esprime lo stesso che Elia disse con le parole: 'Stare davanti al Volto del Signore"...La preghiera è guardare in alto al Volto dell'Eterno. Lo possiamo solo quando lo Spirito veglia nelle ultime profondità, sciolti da ogni attività e godimento terreno, che lo attutiscono. Essere vigilanti con il corpo non garantisce quest'essere vigilanti e la quiete, desiderata secondo la natura, non lo impedisce".  

"Non abbiamo il Salvatore solo nelle narrazioni dei testimoni sulla sua vita. Egli è presente a noi nel Santissimo Sacramento, e le ore di adorazione dinanzi al Massimo Bene, l'ascolto della voce del Dio eucaristico sono: "meditare la Legge del Signore" e "vigilare nella preghiera" nel contempo."

"Elia ritornerà come testimone della rivelazione segreta, quando si avvicinerà la fine del mondo, nella lotta contro l'Anticristo per patire la morte dei martiri per il suo Signore".

 

La vicenda di Elia possiamo leggerla nel Primo Libro dei Re. 

 

Elia (il cui nome significa « il mio Dio è Jahvè ») nacque verso la fine del X sec. a.C. e svolse gran parte della sua missione sotto il regno del pavido Acab (873-854), docile strumento nelle mani dell'intrigante moglie Jezabel, di origine fenicia, che aveva dapprima favorito e poi imposto il culto del dio Baal.
Quando ormai il monoteismo pareva soffocato e la maggioranza del popolo aveva abbracciato l'idolatria, Elia si presentò dinanzi al re Acab ad annunciargli, come castigo, tre anni di siccità. "Per la vita di Jahvè, Dio d'Israele, alla cui presenza io sto: in questi anni non ci sarà né rugiada, né pioggia, fino a quando io lo dirò" (I Re, 17,1 ss).

Perseguitato per questo da Acab, Elia, sempre per volere di Dio, rimase nascosto presso il torrente Cherit, nel folto verdeggiante e nelle grotte che si trovavano sul pendio, mentre i corvi gli portavano da mangiare. Egli beveva al torrente, che presto però si prosciugò; seguendo sempre la voce del Signore Elia cercò rifugio a Sarepta, a sud di Sidone, recandosi da una vedova, per avere un po' di cibo. Così questa donna, che praticava la grande virtù orientale dell'ospitalità, gli offrì il poco cibo che le rimaneva, vedendo con gioia la moltiplicazione della farina e dell'olio nella giara; vide anche con stupore che il suo unico figlioletto morto, era ritornato in vita per la preghiera di intercessione del profeta. Elia trascorse a Sarepta tre lunghi anni, quando Dio stesso gli si rivolse ancora, per mandarlo ad Acab e far cessare la tremenda siccità. Egli ritornò dal re e per dimostrare la inanità degli idoli lanciò la sfida sul monte Carmelo contro i 400 profeti di Baal. Quando sul solo altare innalzato da Elia si accese prodigiosamente la fiamma, e l'acqua invocata scese a porre fine alla siccità, il popolo esultante linciò i sacerdoti idolatri. Elia credette giunto il momento del trionfo di Jahvè, e perciò tanto più amara e incomprensibile gli apparve la necessità di sottrarsi con la fuga all'ira della furente Jezabel.

Braccato nel deserto come un animale da preda, l'energico e intransigente profeta sembrò avere un attimo di cedimento allo sconforto. Il suo lavoro, la sua stessa vita gli apparvero inutili e pregò Dio di recidere il filo che lo teneva ancora legato alla terra.

Si addormentò sotto un ginepro; un angelo lo confortò, porgendogli una focaccia e una brocca d'acqua. Elia riuscì, così, a riprendere forza e si rimise in cammino, per tornare all'Oreb, alle sorgenti della pura fede, per riprendere l'antica fiducia. Dopo aver attraversato per quaranta giorni e quaranta notti il deserto, il profeta si rifugiò in una caverna, sulla cima del monte.

Probabilmente pensava, come Mosè, di incontrarsi con Dio. Ma Dio non gli si mostrò né nel vento forte, né nella tempesta, né nel fuoco, con tutti i suoi fenomeni impressionanti, bensì nel mormorio di un vento leggero. Elia si coprì il volto col mantello, uscì e si fermò all’ingresso della caverna. Ed ecco udì una voce che gli disse: “Che fai qui, Elia?”. Egli rispose: “Sono pieno di zelo, per il Signore Dio degli eserciti…

Il fiero profeta, che indossava un mantello di pelle sopra un rozzo grembiule stretto ai fianchi, come otto secoli dopo vestì il precursore di Cristo, Giovanni Battista, di cui è la prefigurazione, tornò con rinnovato zelo in mezzo al popolo di Dio, ma non assistette al pieno trionfo di Jahvè. L'opera di riedificazione spirituale, tanto faticosamente iniziata, venne portata avanti con pieno successo dal suo discepolo Eliseo, al quale comunicò la divina chiamata mentre si trovava nei campi dietro l'aratro, gettandogli sulle spalle il suo mantello. Eliseo fu anche l'unico testimone della misteriosa fine di Elia, avvenuta verso l' 850 a. C., su un carro di fuoco.  

Elia era partito da Galgala per Betel e poi per Gerico con Eliseo, che presago della sua fine, volle seguirlo, nonostante le sue insistenze di rimanere solo. Sulle rive del Giordano le acque, percosse dal mantello di Elia, si aprirono. Egli si decise finalmente a riconoscere che stava per essere rapito in cielo e chiese ad Eliseo che cosa dovesse fare per lui. "Due terzi del tuo spirito diventino miei" disse Eliseo (2 Re, 2,7ss). I due terzi, nella mentalità ebraica, rappresentavano la parte di eredità spettante al primogenito. Eliseo voleva essere riconosciuto quale primogenito del profeta Elia. Al che Elia rispose: "Se mi vedrai, ciò ti sarà concesso".  

Eliseo, in una specie di estasi profetica, vide apparire un carro e dei cavalli di fuoco e l'improvviso elevarsi di Elia nel turbine.  Il discepolo si strappò le vesti e raccolse il mantello di Elia: non capì che il profeta in una grande estasi, era salito al cielo.  

 

In un momento di grande confusione politica e religiosa della storia di Israele, Elia rappresenta un sicuro punto di riferimento. È colui che restaura l’alleanza con Dio contro il culto dilagante di Baal; è il profeta che manifesta l’intervento strepitoso di Dio sul Carmelo. Egli appare nella Sacra Scrittura come l’uomo che cammina sempre alla presenza del suo Creatore e combatte, infiammato di zelo, contro l'ingiustizia e la sopraffazione, per il culto dell'unico vero Dio: prima il fuoco che brucia il sacrificio, poi l’acqua, la nuvoletta, “come una mano d’uomo” che sale dal mare e porta la pioggia a dirotto.

Nella tradizione biblica (Siracide 48, 1) Elia è il profeta simile al fuoco, nel libro dei Re è anche colui che incontra Dio nel silenzio e nella preghiera (1Re 19, 11-14). In questo profeta dalla linea ferrea, appare un senso di umanità e di povertà quando è colto dallo scoraggiamento, quando crolla dentro, quando ha paura di morire ed è stanco e depresso ("non sono migliore dei miei padri"). Il grande eroe per trovare veramente Dio dovrà percorrere un lungo cammino di prova, una forte crisi che lo renderà più umile, meno sicuro di sé: egli dovrà nascondersi per dare a Dio il suo vero posto. Egli verrà ricondotto al silenzio, ad ascoltare una Parola che gli viene dall'Alto, e questa Parola serena e seria lo condurrà a fare una nuova esperienza di Dio. Se prima Elia si era mostrato come l'eroe che combatte per Dio, da questo momento, egli ritraendosi nel deserto, si immedesima con la Parola di Dio. Vuole attendere che Dio gli si manifesti, prima che egli stesso parli. Il suo incontro è portatore di intimità, di profondo silenzio, di forza. Elia, che ha visto e servito il Signore con un senso della signoria e del primato di Dio veramente eccezionali, gode sull'Oreb dell'intima esperienza del Dio vivente. Il Profeta comprende che Dio non propizia il trionfo del bene con gesti spettacolari, ma agisce con longanime pazienza, poiché egli è l'Eterno e domina il tempo. Elia arriva così ad una conoscenza più reale di quel Dio, alla cui presenza vive, che è tale da cambiare la sua persona, da renderlo diverso, veramente "uomo di Dio". Adesso egli è il profeta pieno, che non solo parla di e per Dio, ma anche con Lui. D'ora in poi, dopo la crisi e la dura prova, Elia si rivela l'uomo del distacco, dell'obbedienza, della purezza interiore e della preghiera, il vero contemplativo, il primo monaco, padre dei futuri monaci, che conosce in questa "voce di silenzio svuotato" qualcosa di più profondo e vero della realtà divina e ne rimane letteralmente trasformato. Egli è fuoco e acqua, zelo e misericordia, azione e contemplazione; il suo santuario è dentro e viene percorso interiormente: è un pellegrinaggio interiore per incontrare il Dio vivo e vero.

 

Il  Carmelo ed il  Santo Bambino di Praga

 

Il culto all'Infanzia di Gesù nella comunità cristiana risale a più di un millennio fa e il suo contenuto rimanda essenzialmente alla contemplazione del mistero dell'Incarnazione del nostro Dio e Signore Gesù Cristo. Santa Teresa d'Avila, nelle sue fondazioni di nuovi monasteri di monache Carmelitane Scalze, aveva sempre con sé una statua del Santo Bambino Gesù. Proprio nella Spagna di questo periodo la sottolineatura dell'Incarnazione di Cristo e, di conseguenza, il culto per la sua Infanzia trovò una profonda risonanza.

Il culto all’Infanzia di Gesù in Boemia (oggi Repubblica Ceka) è legato al tempo del barocco, e il Santo Bambino di Praga ne è il protagonista assoluto. La storia di questa particolare statua di cera comincia nel sud della Spagna, come opera di uno scultore sconosciuto. Si dice provenga da un convento tra Cordoba e Siviglia, nel quale viene venerata una copia in legno della statua. Da qui la trasse donna Isabela Manrique de Lara y Mendoza. Con la figlia Maria Manrique de Lara la statua prese la via della Boemia, essendosi sposata con un nobile ceko Vratislav di Pernstein. Come dono di nozze la ricevette sua figlia, Polyssena allorché si sposò con Vilem di Rozumberk. Ella prese con sé la statua del Santo Bambino anche nel suo secondo matrimonio, dopo la morte del primo marito. Si sposò con Zdenek Vojtech di Lobkowicz e, dal momento che non ebbe figlie, regalò la preziosa statuina al Priore dei Padri Carmelitani Scalzi, presso il convento di Santa Maria della Vittoria nel quartiere di Mala Strana in Praga.

All’inizio la statua fu posta nella cappella del noviziato, secondo una consuetudine del Carmelo Teresiano. Nell’anno 1631 i Sassoni attaccarono Praga e nemmeno i conventi si salvarono dal saccheggio. La statua del Santo Bambino rimase seriamente danneggiata e gettata fra le rovine dietro all’altar maggiore. Fu ritrovata solo nel 1637, quando venne a Praga padre Cirillo della Madre di Dio, proveniente dal convento dei Padri Carmelitani Scalzi di Monaco di Baviera. Dopo molti sforzi, egli riuscì a far finanziare la riparazione delle manine della statua da un ufficiale della città. Il Santo Bambino divenne nuovamente oggetto di culto, e gli vennero attribuiti parecchi fenomeni miracolosi, fra cui la salvezza della città in occasione di un assedio degli Svedesi.

 

Preghiera:

O amabile Gesù Bambino, che per mezzo della tua prodigiosa immagine di Praga, volesti suscitare ed accendere sempre più il culto alla tua santa infanzia e rivelarci i tesori di grazie che hai riservato ai veri tuoi devoti, accogli questi bambini tra i tuoi amichetti preferiti, proteggili benedicendoli con la tua dolce manina.

A te consacriamo questi bambini e tutti i bambini del mondo:

rivolgi loro il tuo tenero sorriso, segno di benevolenza e di amore.

Sorridi soprattutto ai tanti bambini che stanno male, che soffrono o sono abbandonati.

Tu sei Dio che hai voluto farti bambino, li affidiamo al mistero della tua santa infanzia passata come noi.

Conservali nella tua grazia, difendili da ogni male e continua ad essere per tutti loro il piccolo compagno della loro vita.

Fa' che crescano sani e buoni vicino a te e che possano diventare grandi mantenendosi nella tua grazia.

Li presentiamo a te per mezzo della mamma tua, la vergine Maria che è anche mamma nostra e mamma di tutti i bambini del mondo.

Santo Bambino Gesù, benedicili, proteggili, santificali!

 

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