La Terza Acqua

 

 

Cominciamo ora a parlare della terza acqua con cui si irriga questo giardino, cioè l’acqua corrente di fiume o di fonte. Ciò costa molto minor fatica, benché dia un po’ da fare immettere l’acqua nei canali. A questo punto il Signore vuole aiutare il giardiniere in modo tale da prenderne quasi il posto e far tutto lui. E’ come un sonno delle potenze dell’anima: esse non si perdono del tutto, ma non capiscono in che modo operino. Il piacere, la dolcezza e la gioia sono incomparabilmente maggiori di quelli dello stato precedente, perché l’acqua della grazia arriva alla gola, tanto che l’anima non può né sa come andare avanti né tornare indietro: vorrebbe godere dell’eccelsa gloria. È come uno con la candela in mano, cui manca poco per morire della morte tanto desiderata. In quell’agonia sta godendo con la maggiore gioia esprimibile: mi sembra che non sia altro se non un morire quasi completamente a tutte le cose del mondo e stare già godendo di Dio.
Non so quali altri termini usare per dire e spiegare questo; l’anima non sa in tale stato cosa fare, se parlare o tacere, se ridere o piangere: è un glorioso delirio, una celeste follia, da cui si desume la vera sapienza, ed è, per l’anima, un modo di godere deliziosissimo
...

 

Qui le potenze non possono far altro che occuparsi completamente di Dio. Sembra che nessuna osi muoversi né potremmo smuoverle noi, a meno che con molto sforzo non volessimo distrarci, ma credo che neanche in tal caso potremmo riuscirci. Si dicono molte parole in onore di Dio, ma senza ordine (se il Signore stesso non vi pone ordine, perché l’intelletto qui non serve a nulla); l’anima vorrebbe gridare le sue lodi, e scoppia di gioia; è in preda a un’inquietudine piacevole. I fiori già sbocciano, già cominciano a emanare profumo. L’anima allora vorrebbe che tutti la vedessero e si accorgessero della sua gioia, per lodare Dio e aiutarla a glorificarlo e per renderli partecipi del suo gaudio, incapace di sopportarlo da sola...
Vorrebbe che tutto il suo corpo e la sua anima le si lacerassero per manifestare il godimento che in quella pena prova. Quali tormenti, allora, le si potranno presentare che non le sia piacevole affrontare per il suo Signore? Vede ora chiaramente che i martiri non ci mettevano niente del loro nel sopportare i tormenti, perché sa bene, l’anima, che la forza viene da un’altra parte. Ma quale sarà la sua pena nel rientrare in se stessa per vivere nel mondo e dover tornare alle cure e agli impegni che esso impone di adempiere!
... Quest’anima vorrebbe sentirsi ormai libera; il mangiare la distrugge, il dormire l’angoscia; vede che il tempo le passa nel trascorrere una vita comoda, mentre nulla la può far vivere bene fuori di voi; le pare di vivere contro natura, perché ormai non vorrebbe più vivere in sé, ma in voi...

 

Qui mi sembra che venga bene abbandonarsi completamente fra le braccia di Dio; se egli vuole portare l’anima in cielo, bene; se all’inferno, non se ne affligga, andandoci con il suo Bene; se vuoi farla cessare di vivere, è proprio quel che si desidera; se farla vivere mille anni, va anche bene; Sua Maestà ne disponga come di cosa propria, poiché l’anima non appartiene più a se stessa; è tutta data al Signore; non si preoccupi d’altro.
Dico dunque che, in così alto grado di orazione come è questo, quando Dio lo concede all’anima, questa può fare tutto ciò e anche più, essendo tali i suoi effetti e accorgendosi lei stessa che opera senza alcuna stanchezza dell’intelletto. Solo mi sembra che rimanga come stupita di vedere il Signore fare così bene il giardiniere, senza sottoporla a nessuna fatica, ma volendo unicamente che goda del profumo incipiente dei fiori. Con un solo suo intervento, per poco che duri, essendo tale il giardiniere, cioè il creatore dell’acqua, ne dà a dismisura; e quello che la povera anima non ha potuto fare, forse stancando in vent’anni l’intelletto, lo fa questo celeste giardiniere in un momento, ingrossando e maturando i frutti in modo che, se il Signore lo vuole, l’anima può sostentarsi con il ricavato del suo giardino. Ma non le permette di ripartirne i frutti con altri, fin tanto che non si sia fortificata bene con ciò di cui si è nutrita, affinché non abbia a consumarsi tutto in assaggi senza che ella ne tragga alcun vantaggio né ricompensa da coloro che ne fa partecipi, con il pericolo, forse, di morire di fame per mantenere e far mangiare altri a sue spese.
In conclusione, le virtù sono ora più forti che nella passata orazione di quiete e l’anima non può non accorgersene, perché si sente cambiata e, senza saper come, comincia a operare grandi cose, grazie al profumo di quei fiori che il Signore fa sbocciare, affinché essa si veda in possesso di virtù, pur comprendendo bene che non le ha per merito suo, in quanto non avrebbe potuto guadagnarle neanche in molti anni, ma che in quel così breve spazio di tempo gliene ha fatto dono il celeste giardiniere. Qui l’umiltà provata dall’anima è molto maggiore e più profonda che nello stato precedente, perché vede più chiaramente di non aver fatto né poco né molto, niente altro se non acconsentire che il Signore elargisse le sue grazie, abbracciandole con la propria volontà .
Mi pare che questo modo di orazione sia una ben manifesta unione di tutta l’anima con Dio; in esso sembra anche che Sua Maestà voglia permettere alle potenze d’intendere e godere quanto egli vi opera.
Questo accade alcune volte, anzi molte volte, quando la volontà è unita a Dio: si vede e s’intende chiaramente che la volontà è legata a Dio e ne gode e si vede anche chiaro che solo la volontà sta in molta quiete, mentre, dal canto loro, l’intelletto e la memoria sono così liberi da poter trattare d’affari e attendere a opere di carità.
Tale condizione, benché sembri identica, è differente — in parte — dall’orazione di quiete perché lì l’anima non vorrebbe muoversi né agitarsi, godendo del santo ozio di Maria, mentre in quest’orazione può anche fare da Marta (così che fa quasi insieme vita attiva e contemplativa), attendere a opere di carità, a faccende convenienti al suo stato, a leggere, benché l’intelletto e la memoria non siano del tutto padroni di sé e ben capiscano che la parte migliore dell’anima è all’altro estremo. E come se stessimo parlando con uno, e dall’altra parte ci parlasse un altro: non potremmo intenderci bene né con l’uno nè con l’altro.
E’ una cosa che si avverte molto chiaramente e dà molta gioia e soddisfazione quando si prova; serve molto a disporre l’anima, quando ha il tempo di starsene in solitudine, libera da occupazioni, a una profondissima quiete. E’ lo stesso caso di una persona sazia, che non ha bisogno di mangiare e sente lo stomaco soddisfatto, in modo che non sarebbe disposta a mangiare qualunque cibo; peraltro, non così sazia che, se li vede buoni, tralasci di mangiarli volentieri. Essa non è soddisfatta dei piaceri del mondo, né allora li vorrebbe, perché ha in sé chi più la soddisfa; ha gioie più grandi da Dio, desidera soddisfare i suoi desideri, godere di più, stare con lui: questo è ciò che vuole...


A volte mi accade che mi sento struggere l’anima dal desiderio che essa ha di vedersi unita con la sua parte maggiore, e ciò è impossibile, perché la memoria e l’immaginazione le fanno tanta guerra da non consentirle di prevalere. Anche se, mancando le altre potenze, non possono far nulla, neppure il male, fanno già molto col creare scompiglio. Dico « neppure il male» perché non hanno forza e non si concentrano in un punto; non essendo loro d’aiuto l’intelletto né poco né molto in quello che gli presentano, non si fermano in nulla, ma volteggiano qua e là come farfallette notturne importune, irrequiete, che svolazzano da una parte all’altra. Mi sembra che il paragone sia particolarmente appropriato perché anche se tali farfalle non hanno forza di fare il male, danno fastidio a chi le vede.
 

... In questo stato si vedono ben chiaramente la nostra miseria e il grande potere di Dio; perché, mentre le potenze che restano libere ci molestano e stancano tanto, le altre che stanno con Sua Maestà ci danno un vero riposo.
Il rimedio che, in conclusione, ho trovato, dopo tanti anni di fatica, è quello di cui ho parlato nell’orazione di quiete: non badare all’immaginazione più di quanto non si badi a un pazzo e lasciarla alla sua ostinazione, che solo Dio le può togliere. Infine, quì non è che una schiava. Dobbiamo sopportarla con pazienza, come fece Giacobbe con Lia, perché è una grande grazia del Signore che possiamo godere di Rachele. Dico che è come schiava perché, in conclusione, non può, per quanto faccia, trascinare a sé le altre potenze; anzi, sono esse a tirarla spesso dalla loro parte senza alcuna fatica. A volte Dio ha la bontà di sentire compassione del suo smarrimento e della sua irrequietezza, desiderosa com’è di stare con le altre, e le consente di consumarsi al fuoco di quella divina fiamma in cui le altre sono già ridotte in cenere, perduto quasi il loro naturale essere nel godimento trascendente di così grandi beni.
In tutte queste maniere di unione di cui ho detto parlando di quest’ultima acqua di fonte, la gioia e il riposo dell’anima sono così grandi che molto chiaramente a tale gioia e diletto partecipa anche il corpo. Le virtù, ripeto, attingono un altro grado.


 

 

La quarta acqua

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