LUGLIO
Beata Giovanna Scopelli Santa Teresa di Gesù De Los Andes
Beate Martiri di Compiègne S. Elia Profeta
Beate Martiri di Guadalajara Beato Tito Brandsma
9 Luglio: Beata Giovanna Scopelli
Nacque a Reggio Emilia nel 1428; i suoi
genitori furono Simone e Caterina. Non si sa molto della sua vita: ebbe due
sorelle ed un fratello; per parte sua ottenne dai genitori il permesso di farsi
mantellata carmelitana, vivendo però in casa. Morti i genitori si ritirò presso
una donna di modeste condizioni economiche, ma di molta pietà, che pensava di
costruire un Monastero.
Giovanna si pose alla ricerca di un luogo adatto, quando una vedova le offrì se
stessa, due figlie e la sua casa. Abitarono insieme dal 1480 al 1484, mentre
Giovanna cercava un altro luogo che potesse servire da Monastero per vivere in
unione con Dio e diffondere il suo Amore affinché tante anime dedicassero la
loro vita alla lode e all’Adorazione del Dio Vivente:
già le si erano unite altre due fanciulle.
Desiderosa di avere la chiesa di S.
Bernardo, tenuta dai Frati Umiliati, con l'appoggio del Vescovo Filippo Zoboli,
la ottenne dal loro Generale, di passaggio per Reggio.
Il nuovo Monastero, che ebbe come suo principale scopo la preghiera per
la Chiesa, cambiò il nome di S.
Bernardo in quello di S. Maria del Popolo (poi detto le Bianche);
di questo ella divenne la Priora
così come la guida spirituale.
Le immancabili difficoltà finanziarie degli inizi vennero risolte con l'aiuto di
un certo Cristoforo Zoboli.
Altre venti religiose formarono, sotto la sua guida, la nuova Comunità, che fu
affidata alla cura della Congregazione Mantovana dei Carmelitani, da cui ebbe un
confessore nel 1487.
Dotata da Dio di carismi straordinari, animata da intenso spirito di penitenza,
venerò la Vergine con una sua speciale "devozione", detta la Camicia della
Madonna.
Consisteva nella recita di 15.000 Ave Maria intercalate ogni 100
Ave con la Salve Regina. Alla fine veniva recitato 7 volte l’Ave Maris Stella,
oppure O gloriosa Domina. La Comunità recitò la “camicia” fino al 1773. La Beata
si sforzò di conservare e di alimentare una tenera conversazione con Maria
nell’agire e nel patire, nelle afflizioni e nelle calamità; in tal modo la sua
anima visse immersa nell’amore verso la nostra amabilissima Madre con sentimenti
filiali. Fu piena di tenerezza per Maria e in lei contemplava il Figlio Suo
Gesù. Dio irruppe nella sua anima facendole vivere un’esperienza profonda della
sua presenza, concedendole grazie mistiche e tracciando un cammino fatto di luci
e di notti. La Beata Giovanna conobbe la notte dello spirito come passaggio
obbligatorio alla nascita della nuova creatura, in un cammino in cui croce e
amore s’identificano.
Quest’itinerario è per ogni persona, ma lei si abbandonò a divenire “strumento” come Maria si era abbandonata con il suo sì a dare alla luce Gesù. Dio si fece spazio nella sua anima purificandola con le notti oscure, bruciando in lei tutto ciò che era umano e lasciandole solo ciò che era conforme al suo volere. Lo Spirito le fece percorrere un lungo cammino di purificazione, di dilatazione e di espropriazione perché l’amore-carità potesse essere percepito nella sua essenza e la sua vita potesse dilatarsi non rimanendo più nei limiti del piccolo “io”. Così incarnò l’amore di Dio e si fece dono senza alcuna riserva: nell’amore-carità il suo mondo interiore abbracciò l’immenso spazio della Chiesa.
Giovanna morì il 9 luglio 1491; il suo culto
ebbe inizio l'anno seguente, con l'esumazione del corpo.
Nel 1500 si raccolse un giudizio
pubblico sulla vita, sulle sue virtù e i suoi miracoli; negli anni 1767-70 fu
tenuto il processo diocesano per il riconoscimento del culto, che fu approvato
da Clemente XIV
il 24 agosto
1771.
In seguito alla soppressione del Monastero e della chiesa delle Carmelitane,
avvenuta nel 1797,
nel 1803 il corpo della Beata fu trasferito nella
Cattedrale.
Possediamo di Giovanna solo alcuni frammenti che però sono indicativi
della qualità della sua relazione con Dio e della sua spiritualità profondamente
mariana.
Giovanna contemplava con grande amore l'Infanzia di Gesù, di cui scopriva e
prediligeva il grande mistero di amore insondabile:
Mio Signore,
Tu splendore della luce eterna,
Tu hai voluto diventare così piccolo,
così povero, così paziente!
Quali azioni di grazie non ti dovrei rendere quando vedo che tutto questo
Tu l'hai fatto per amore,
proprio per me?
Non ho nulla da offrirTi,
tranne l'amore che arde nel mio cuore
e che vorrei esprimere con le mie parole. Sono proprio incapace
di ripagarTi il prezzo della mia redenzione. Almeno io possa con le mie lodi
glorificare la tua immensa bontà verso di me! Non ho forse posto nel mio stesso
cuore
il tabernacolo della Tua Maestà?
Caro piccolo Bambino,
vorrei amarTi senza riserve,
ma sono così lontana dall'appartenerTi tutta intera! La povertà delle mie parole
tradisce l'intensità
dei miei desideri.
13 Luglio: Santa Teresa
di Gesù De Los Andes
17 Luglio: Beate Martiri di Compiègne
Sono le sedici Carmelitane Scalze del monastero dell'Incarnazione di Compiègne (Francia). Solo impropriamente si parla di "sedici carmelitane": in realtà le monache uccise furono solo quattordici, le altre due vittime furono delle inservienti laiche, così affezionate che vollero condividere la sorte delle loro suore fino a condividere anche la stessa passione e la stessa gloria. Perciò, dopo quella "professione solenne" del martirio, non possiamo più fare distinzioni tra loro: sono, per decisione di Dio, "sedici monache carmelitane".
Il monastero
dell'Incarnazione di Compiègne
prosperò sempre nel fervore, splendendo per regolare osservanza e per fedeltà
allo spirito teresiano, godendo dell'affetto e della stima della corte francese.
Allo scoppio della Rivoluzione le monache rifiutarono di deporre l'abito
monastico;
ogni monaca venne convocata
singolarmente: a ognuna il presidente "annunciava (testualmente!) di
essere apportatore di libertà, e la invitava a parlare senza timore e a
dichiarare se voleva uscire dalla clausura e tornarsene in famiglia".
Un segretario intanto prendeva accuratamente nota delle risposte, la cui
veridicità è perciò garantita dagli stessi "oppositori".
La Priora, convocata per prima, dichiarò
"di voler vivere e morire in quella santa casa".
Un'anziana disse "che era suora da cinquantasei anni e ne
avrebbe desiderati ancora altrettanti per consacrarli tutti al Signore".
Una monaca disse d'essersi fatta religiosa "di suo pieno gradimento
e di propria volontà" e di essere "fermamente
risoluta a conservare il proprio abito, anche a prezzo del proprio sangue".
Un'altra spiegò che "non c'era felicità così grande come quella di
vivere da carmelitana" e che "il suo più ardente desiderio era di
vivere e di morire tale". Un'altra ancora insisté
che "se avesse avuto mille vite, tutte le avrebbe consacrate allo stato
che aveva scelto, e che nulla poteva convincerla ad abbandonare la
casa dove abitava e dove aveva trovato la sua felicità".
Un’ altra aggiunse che "approfittava di quella occasione per rinnovare i
suoi voti religiosi, e anzi ne approfittava anche per regalare ai magistrati una
poesia che aveva appena finito di scrivere, sull'argomento della sua vocazione"
(ma quelli, andandosene, lasciarono il foglio sul tavolo, con
disprezzo).
E un’altra ancora precisò che "se avesse potuto raddoppiare i vincoli che
la legavano a Dio, lo avrebbe fatto con tutte le forze e con immensa gioia".
La più giovane professa, infine -che aveva emesso i voti proprio in quell'anno-
osservò che "una sposa ben nata resta col suo Sposo, e che perciò niente
la poteva indurre ad abbandonare il suo Sposo divino, Nostro Signore Gesù Cristo".
Non venne interrogata la novizia perché non aveva voti e quindi, prima o poi,
doveva tornarsene a casa per forza. Anzi i parenti erano venuti per
riprendersela, ma si erano sentiti rispondere che "niente e nessuno poteva
separarla dalla comunione con la madre e con le sorelle di quel monastero".
Se ne erano andati dichiarando "di non voler più sentir parlare di lei, e
nemmeno ricevere sue lettere": dando così paradossale conferma alla scelta
della ragazza.
Insomma la risposta di tutte era che volevano "vivere e morire nel loro
monastero". Appena la rivoluzione francese degenerò nel terrore, le
Carmelitane Scalze
si offrirono
al Signore in olocausto "per placare la collera di Dio e perché la pace
divina, recata sul mondo dal suo caro Figlio, fosse resa alla Chiesa e allo
Stato". Cacciate dal monastero il 14 settembre 1792,
subaffittarono delle stanze, in uno
stesso quartiere, in quattro case vicine, e si divisero in
quattro
gruppetti: riuscivano a comunicare tra loro passando tra i giardini e i cortili
interni. Non avevano più monastero, né clausura, né grate, né chiesa:
periodicamente si riunivano nell'abitazione della Priora, Teresa di S.
Agostino, per averne sostegno e guida.
Per il resto cercavano come potevano di osservare la loro regola di preghiera,
di silenzio e di lavoro, anche in quella situazione così inattesa e precaria.
Le due più anziane all'inizio furono prese dall'angoscia: le terrorizzava il
pensiero della lugubre ghigliottina; ma poi vollero offrirsi assieme a tutte le
loro sorelle.
Da allora la comunità rinnovò l'atto di offerta, ogni giorno, durante la Santa
Messa, legandosi sempre più coscientemente al Sacrificio di Cristo. Intanto il
Tribunale rivoluzionario varò la "Legge dei sospetti": in giudizio non
occorrevano più né prove, né difensori; il semplice sospetto bastava per venire
condannati alla pena capitale.
Presto scoperte e denunciate dal comitato rivoluzionario, le
nostre sorelle dapprima
il 24 giugno 1794 furono catturate o rinchiuse
insieme a Sainte-Marie, già monastero della Visitazione, trasformato in carcere;
poi
furono trasferite a Parigi
con una denuncia che le accusava, tra l'altro, di "arrestare il progresso
dello spirito pubblico ricevendo nelle loro case persone le quali venivano poi
ammesse ad un’aggregazione detta dello Scapolare...".
Viaggiarono tutto il giorno e tutta la notte su una carretta scortata da due
gendarmi, un maresciallo e nove dragoni:
giunsero a Parigi il 13 luglio.
Nello scendere dalla carretta, ognuna
si aiutò come poteva; la più anziana, di settantanove anni, con le braccia
legate e senza il suo bastone, non ci riusciva e venne perciò gettata di peso
sul lastricato.
La credettero morta, ma si rialzò sanguinante e con estrema fatica: "Non
ve ne voglio, -disse.- Vi ringrazio di non avermi uccisa. Avrei
perduto la felicità del martirio che aspetto".
Le monache, a Parigi, furono rinchiuse
nella Conciergerie, il terribile
carcere della morte, pieno già
di sacerdoti, religiosi e altre persone destinate alla morte.
Esempio a tutti di tranquillità e di serena confidenza in Dio e, insieme,
modello di attaccamento totale a Gesù e alla Chiesa, le monache sapevano
effondere intorno a sé anche un raggio di gioia, come avvenne il 16 luglio,
festa della Madonna del Carmelo, in cui una delle sedici, chiedendo senza paura
ad un recluso più libero qualcosa per scrivere, con dei fuscelli carbonizzati
scrisse sull'aria della Marseillaise un canto di giubilo e di preghiera nella
previsione del martirio. Il giorno dopo, con giudizio sommario, in cui esse
ebbero modo di manifestare la loro fortezza, le sedici Carmelitane Scalze furono
condannate a morte dal tribunale rivoluzionario per la loro fedeltà alla vita
religiosa, per il "fanatismo" (specialmente in relazione alla meravigliosa
devozione ai Sacri Cuori di Gesù e di Maria) e per l'attaccamento all'autorità
costituita. Mentre erano portate in carretta per l'esecuzione alla
Barrière-du-Tróne, tra il silenzio della folla e degli stessi sanculotti,
cantavano ad alta voce il Miserere, la Salve Regina e il Te
Deum. Giunte ai piedi della ghigliottina
la Priora chiese e ottenne dal boia la grazia di morire per ultima, in
modo da poter assistere e sostenere, come Madre, tutte le sue religiose,
soprattutto le più giovani. Volevano morire assieme, anche spiritualmente, come
se compissero un unico e ultimo "atto di comunità". Fu un gesto liturgico. La
Priora chiese ancora al boia di voler attendere un po', e ottenne anche questo:
intonò allora il Veni Creator Spiritus e lo cantarono interamente; poi
tutte rinnovarono i loro voti. Al termine la Madre si mise di lato davanti al
patibolo, tenendo nel cavo della mano una piccola statua di terracotta della
Santa Vergine, che era riuscita a nascondere fino ad allora. La prima fu la
giovane novizia, suor Costanza.
Si inginocchiò davanti alla Priora, le chiese la benedizione e il permesso di
morire; baciò la statuina della Vergine e salì i gradini del patibolo,
"contenta -dissero i testimoni- come se andasse a una festa" e,
mentre saliva intonò il salmo "Laudate Dominum omnes gentes": ripreso
dalle altre che una alla volta la seguirono con la stessa pace e la stessa
gioia, anche se bisognò aiutare a salire le più anziane.
La Priora, come la madre dei Maccabei, venne immolata per ultima: lei, che aveva preparato così bene le figlie al martirio e che aveva realizzato in maniera meravigliosa quanto ella era solita dire "L'amore sarà sempre vittorioso. Quando si ama, si può tutto", venne uccisa, dopo aver consegnata la statuetta a una persona che si trovava vicino (conservata, ancor oggi, nel monastero di Compiègne). Il martirio, avvenuto il 17 luglio 1794, dimostrava ancora una volta il potere insuperabile dell'amore di Cristo.
Dai
documenti esistenti e dalle testimonianze preziose delle tre Carmelitane Scalze
della comunità di Compiègne che sfuggirono al martirio, possiamo fare l'elenco
delle sedici martiri con i loro rispettivi nomi di religione, più o meno
completi e, tra parentesi, quelli secolari:
Teresa di S. Agostino (Maria Maddalena Claudina Lidoine), priora, nata a
Parigi il 22 settembre 1752;
Suor S. Luigi (Maria Anna Francesca Brideau), sottopriora, nata a Belfort il 7 dicembre 1751;
Suor Anna Maria di Gesù Crocifisso (Maria Anna Piedcourt), nata a Parigi il 9 dicembre 1715;
Suor Carlotta della Resurrezione (Anna Maria Maddalena Thouret), nata a Mouy (Oise) il 16 settembre 1715;
Suor Eufrasia dell'Immacolata Concezione (Maria Claudia Cipriana Brard), nata a Bourth (Eure) il 12 maggio 1736;
Suor Enrichetta di Gesù (Maria Francesca de Croissy), nata a Parigi il 18 giugno 1745;
Suor Teresa del Cuore di Maria (Maria Anna Hanisset), nata a Reims (Marne) il 18 gennaio 1742;
Suor Teresa di S. Ignazio (Maria
Gabriella Trézel), nata a Compiègne il 4 aprile 1743;
Suor Giulia Luisa di Gesù (Rosa Cristiana de Neuville), nata a Avreux
(Eure) il 30 dicembre 1741;
Suor Maria Enrichetta della Provvidenza (Maria Annetta Pelras), nata a
Cajare (Lot) il 16 giugno 1760;
Suor Costanza (Maria Genoveffa Meunier), novizia, nata a Saint-Denis
(Seine) il 28 maggio 1765;
Suor Maria dello Spirito Santo (Angelica Roussel), conversa, nata a
Fresne-Mazancourt (Somme) il 3 agosto 1742;
Suor S. Marta (Maria Dufour), conversa, nata a Bannes (Sarthe) il 2
ottobre 1741;
Suor S. Francesco Saverio (Elisabetta Giulietta Vérolot), conversa, nata
a Lignières (Aube) il 13 gennaio 1764;
Suor Caterina Soiron, suora esterna (tourière), nata a Compiègne il 2
febbraio 1742;
Suor Teresa Soiron, suora esterna (tourière), nata a Compiègne il 23
gennaio 1748.
I corpi delle sedici martiri furono gettati in una fossa comune, con altri corpi
di condannati, in un posto che divenne poi l'attuale cimitero di Picpus, dove
una lapide ricorda il loro martirio. Di loro rimasero alcuni indumenti che le
Carmelitane Scalze stavano lavando alla Conciergerie quando furono portate in
giudizio e che, due o tre giorni dopo, vennero dati alle benedettine inglesi di
Cambrai, pure incarcerate, ma poi rimesse in libertà; tali indumenti preziosi
sono oggi all'abbazia delle benedettine di Staribrook, in Inghilterra. Reliquie
preziose sono ancora gli scritti delle martiri: lettere, poesie, biglietti; essi
sono riferiti, insieme all'altra documentazione di gran valore, dal p. Bruno di
Gesù Maria nella sua opera fondamentale.
Le martiri furono beatificate da S. Pio X il 13 maggio 1906, con breve
pontificio, mentre già il 10 dicembre precedente era stato pubblicato il decreto
per procedere alla dichiarazione del martirio delle sedici Carmelitane Scalze.
La loro festa è celebrata il 17 luglio dall'Ordine dei Carmelitani Scalzi e
dall'arcidiocesi di Parigi.
Ai nostri giorni il loro nome ha avuto una risonanza inaspettata grazie ad opere
letterarie di valore. Da ricordare il famoso "dialogo delle Carmelitane"
di Bernanos, da cui venne tratto l'omonimo film, che rese l'epopea delle 16
martiri figlie di Teresa, nota a tutto il mondo.
20 Luglio: S. Elia Profeta
24 Luglio: Beate Martiri di Guadalajara
La
vicenda del martirio di suor Maria Pilar di S. Francesco Borgia e delle sue due
compagne di martirio, suor Maria degli Angeli di S. Giuseppe e suor Teresa del
Bambino Gesù e di S. Giovanni della Croce, tutte e tre appartenenti all’Ordine
delle Carmelitane Scalze, è compreso nella grande carneficina che insanguinò la
Spagna con la Guerra Civile fra nazionalisti e miliziani rossi del 1936-39.
Nel cieco furore della caccia ai religiosi queste
sorelle del Carmelo Teresiano hanno testimoniato, fino all'effusione del sangue,
la loro fedeltà agli impegni battesimali e alla professione religiosa, vivendo
nel loro monastero la semplicità di una vita in cui tutto, anche le briciole, i
piccoli niente sono trasformati in offerta d'amore per i fratelli. La tormenta
della rivoluzione le sorprese, ma non le sgomentò: continuarono a vivere la loro
esistenza di silenzioso sacrificio, preparandosi così nel quotidiano a ricevere
quel dono, quella grazia del martirio che le situazioni allucinanti della guerra
civile facevano prevedere.
Beata Maria Pilar di S. Francesco Borgia (Jacoba Martinez Garcia)
Jacoba Martínez García, undicesima
figlia di Gabino e Luisa, nacque a Tarazona (Saragozza) in Spagna, il 30
dicembre 1877 e fu battezzata lo stesso giorno. Questi poveri genitori furono
provati dalla morte di sei bambini, deceduti in tenera età.
In famiglia ci fu già la sorella maggiore che scelse il Carmelo, e che al
tempo della Guerra Civile era Priora del monastero di S. Giuseppe di
Guadalajara.
Jacoba che aveva trascorso i primi anni in famiglia e la gioventù accanto al
fratello sacerdote a Torellas e poi a Corella, collaborando attivamente
all’azione pastorale, rimase commossa dalla professione carmelitana della
sorella maggiore e ciò determinò la sua scelta di entrare nello stesso Carmelo
il 12 ottobre 1898 a 21 anni, facendo la vestizione e prendendo il nome di Maria
Pilar di S. Francesco Borgia. Dopo l’anno di noviziato fece la professione il 15
ottobre 1899; notizie su di lei ce ne sono giunte poche, del resto era una suora
di clausura e la sua vita, come quelle delle consorelle si consumò nell’amore di
Dio e nel nascondimento.
Visse
trentasette anni di vita monastica: ebbe come Priora per lunghi anni sua
sorella, Madre Araceli. Nella sua vita di religiosa ebbe l’incarico di
sagrestana e di rotaria (portinaia); era
molto laboriosa e solerte nei vari e numerosi incarichi di lavoro svolti per
obbedienza e si distingueva davvero per il suo amore al lavoro. Fu una suora di
profonda fede e di grande devozione eucaristica. Le piaceva trascorrere ore
intere davanti al SS. Sacramento, specialmente la domenica e i giorni festivi.
Amava però molto lo stare in cella e si distingueva per il suo raccoglimento.
Aveva molta devozione per la SS. Vergine, S. Giuseppe e i Santi dell'Ordine e
una speciale venerazione per il Papa e i Superiori, offrendo per loro preghiere
e sacrifici.
Era dotata di un carattere socievole, espansivo, vivace; si sapeva rendere
gradevole e simpatica. Pur avendo avuto qualche contrasto ogni tanto con le
sorelle, in generale sapeva esercitare bene con le altre la carità e l'amore
fraterno. Era tanto desiderosa di raggiungere la santità e l'unione con Dio. Lo
si rileva anche dai suoi scritti e dai propositi dei suoi Esercizi, specialmente
in quelli degli ultimi anni, prima della sua morte. Nel 1930 scrisse: “Unione
con Gesù, fare tutte le cose per Suo amore, spiritualizzandole per amore di Dio,
in modo che tutto sia compiuto in Dio e per Dio”, proposito che si sforzò di
vivere con una gioiosa coerenza. Nel 1933 scrisse: “Perché sono carmelitana?
Per essere un’anima tutta di Dio ed essere una grande santa”; negli ultimi
giorni di quel luglio 1936, si offrì vittima a Dio, per la salvezza e
l’incolumità delle consorelle, accettando anche l’idea di un possibile martirio:
“Se ci porteranno al martirio, vi andremo cantando, come le nostre martiri di
Compiègne. Canteremo: Cuore di Gesù, tu regnerai”.
Quando fu barbaramente uccisa aveva 59 anni.
Beata Maria degli Angeli di S. Giuseppe (Marciana Valtierra Tordesillas)
Marciana
Valtierra Tordesillas nacque a Gerafe (Madrid) il 6 marzo 1905, poco lontano dal
Cerro de los Angeles; era l’ultima dei dieci figli di una famiglia benedetta,
perché ben quattro vocazioni religiose sbocciarono fra loro e dei quali due
subirono il martirio, Marciana e il fratello Celestino delle Scuole Pie.
Da piccola cadde gravemente ammalata, ma guarì, raccomandata dalla sorella a S.
Antonio, quasi miracolosamente.
Marciana fu educata in famiglia dalla sorella Marcellina, che diventò
poi monaca Concezionista; in seguito si formò presso le Suore della S. Famiglia
di Gerafe. Avendo letto e meditato il libro “Storia di un’anima” di S. Teresa di
Lisieux, fu attirata fin da ragazza dal Carmelo, dove non poté entrare subito,
per le necessità familiari.
Si dedicò alle opere parrocchiali, collaborando alle Conferenze di S. Vincenzo,
alle Missioni; diventando collaboratrice assidua del carmelitano Venerabile
Giovanni Vincenzo Zengotita (1862-1943) specie nella diffusione dei “Cuori
Mariani” per le missioni, di cui divenne membro il 29 marzo 1924.
A 24 anni il 14 luglio 1929 entrò nel Carmelo di S. Giuseppe di Guadalajara,
dove nel 1930 iniziò il noviziato prendendo il nome di Maria degli Angeli di S.
Giuseppe; il 21 gennaio 1934 fece la professione solenne.
Come lo era stata nella sua casa, fu anche la beniamina del Monastero, era
davvero molto buona, vivace, sottomessa a tutti e umile.
Divenne guardarobiera del Monastero e aiutò la sorella sacrestana: sapeva fare
bene ogni lavoro e aveva una certa abilità nel dipingere. Era suo desiderio
compiere bene la volontà di Dio sempre: ogni tanto diceva "Quanto sospiro la
vita eterna e il momento in cui mi unirò per sempre a Dio!"
In ricreazione soprattutto sapeva rallegrare con le sue diverse trovate le
sorelle; dimostrava sempre un'inalterabile serenità, anche quando era stanca e
debole di salute. Aveva una speciale devozione per l'Eucaristia, per la SS.
Vergine e per S. Giuseppe.
Visse in Monastero solo sette anni eppure ebbe il tempo di dimostrare le virtù
che possedeva e praticava; una forte carità verso Dio e il prossimo,
moderazione, prudenza e una straordinaria maturità.
Quando ancora non si sapeva niente degli avvenimenti, che le avrebbe coinvolte,
espresse alla Priora il desiderio di morire martire. Quando fu uccisa dai
miliziani rossi aveva 31 anni.
Beata Teresa
del Bambino Gesù e di S. Giovanni della Croce (Eusebia Garcia)
Eusebia García y García, nacque a Mochales
(Guadalajara) il 5 marzo 1909 ;
era la
secondogenita di otto figli. Un fratello di Eusebia, Giuliano, divenne
sacerdote, un altro, Quintino, gesuita ed un terzo si fece pure, in seguito,
sacerdote.
Fu educata in famiglia e a sette anni fu portata a Siguenza in casa dello
zio materno, Florentino García, sacerdote, canonico e segretario del vescovo,
che morì anch’egli vittima della persecuzione di quel tempo.
Come l’altra consorella Maria degli Angeli, anche Eusebia fu affascinata dalla
lettura di “Storia di un’anima” della grande mistica carmelitana francese S.
Teresa di Lisieux; con la guida dello zio s’impegnò per una vita religiosa, fra
i nove e gli undici anni fece il voto di castità.
Ricevette un’educazione appropriata presso le Orsoline; quando lasciò il
Collegio, con la guida del santo zio entrò nel Carmelo di Guadalajara il 2
maggio 1925.
Al Monastero fu subito
accolta bene: piaceva la sua semplicità, la sua gioia e il suo entusiasmo, la
sua espansività che sapeva, soprattutto in ricreazione, comunicare alle altre.
Le diedero il nome di "Teresa di Gesù Bambino", nome che alla Professione
solenne, per la quale dovette aspettare fino ai ventun anni, cambierà in quello
di "Teresa di Gesù Bambino e di S. Giovanni della Croce" . . Padre Fabiano, che
la conosceva, la descrive "monaca candida e angelica". Ebbe come Maestra di
noviziato la Madre Araceli, sorella di Suor Maria Pilar.
Fece la prima professione con questo programma di vita: “Canterò in
eterno le misericordie del Signore. Il mio motto: l’amore si paga con l’amore…”.
Il 6 marzo 1936 fece la professione solenne continuando nel cammino della
perfezione con un impegno straordinario, stabilendosi delle norme di vita molto
precise, dando ad ogni atto il sigillo di tre grandi realtà: “Amore, fedeltà,
abbandono”.
Aveva un’anima di artista e grande musicista; era felice di darsi e consumarsi
per il prossimo.
Suor Teresa era molto giudiziosa,
osservante della Regola, piena di carità verso le sorelle, soprattutto verso le
ammalate che, come infermiera, doveva curare. Le piaceva fare i lavori più
umili, per aiutare le sorelle, diceva spesso: "Come mi piace sentirmi stanca!",
immolandosi e offrendosi per i peccatori.
Aveva un temperamento forte ed era di carattere impetuoso, dovette farsi in
questo molta violenza per vincersi completamente: aveva la tendenza di dominare
le altre e dovette esercitarsi molto nell'umiltà. Era un'anima eucaristica e
stava volentieri vicino al Tabernacolo; tutti i giovedì faceva l"'ora santa",
dalle undici a mezzanotte. Anelava ad amare Dio fino alla pazzia, lavorando con
tutte le sue forze per ottenere di stare alla continua presenza di Dio; tutto
quello che riguardava la liturgia l'entusiasmava assai.
Nel 1930, in una lettera, scrisse: "L'unica cosa che ho sono i desideri
grandissimi di essere santa, di essere tutta di Gesù... di ripagargli ' amore
con amore". Si offerse come Vittima all'Amore misericordioso, desiderando
tanto diventare martire.
Sentendo approssimarsi la bufera della rivoluzione che l’avrebbe travolta
insieme alle sue consorelle, affermò: “Potessi ripetere questo grido di ‘Viva
Cristo Re’ sotto la ghigliottina”. E questa esclamazione fu veramente
l’ultima cosa che poté proferire, quando fu uccisa a soli 27 anni.
Il martirio
La
città di Guadalajara, il 22 luglio 1936, cadde in mano ai miliziani rossi e la
carmelitane del monastero di S. Giuseppe, dovettero abbandonarlo in abiti civili
e a gruppi riparare presso conoscenti. Le monache abbandonarono il Monastero,
prendendo la Pisside dal Tabernacolo; il cappellano riuscì a donare a tutte
l'Eucaristia, come viatico.
Esse uscirono dal Monastero a due a due, lasciando una certa distanza le une
dalle altre e si diressero in sei luoghi differenti prestabiliti. Una delle
monache, che meglio dissimulava la sua condizione, andava al Monastero per
portare alle sorelle le provviste per mangiare.
Suor Maria Angela passò una notte insieme alla Madre Araceli e le disse: "O
Madre, se fossimo martiri!" Lo stesso sentimento avevano Suor Pilar e Suor
Teresa.
Il 24 luglio la situazione peggiorò le monache dovettero disperdersi. Poiché
Suor Teresa conosceva una signora che ne poteva ospitare altre due, la Madre
decise di mandarvi Suor Pilar e Suor Maria Angela. Esse uscirono infatti alle
quattro del pomeriggio.
Dopo un quarto d'ora le sorelle rimaste nella pensione sentirono detonazioni e
pregarono, ma ignorando del tutto che si trattava delle loro sorelle.
Le tre sorelle infatti entrarono nel portone della casa dell'amica. Un gruppo di
miliziani se ne accorse, gridando: "Sono monache, sono monache!" le obbligarono
ad uscire sulla strada. la prima fu Suor Maria Angela: le spararono vari colpi
ed ella cadde al suolo ferita mortalmente.
Suor Pilar, pure ferita, riuscì a fare qualche passo e poi cadde a terra. Gridò:
"Viva Cristo Re! Mio Dio perdonateli!" I miliziani spararono ancora e le
fecero una grande ferita con l'arma bianca. Una delle guardie d'assalto riuscì a
portare la suora ferita nella farmacia vicina e poi alla Croce Rossa, qui si udì
Suor Pilar dire varie volte: "Dio mio perdonateli, perché non sanno quello
che fanno... mio Dio, quanto costa morire!". Aveva una grande ferita al
ventre. Il dottore la fece portare all'ospedale, dove morì poco tempo dopo.
Suor Teresa, uscita dal portone, voleva entrare nell'albergo Palace, ma i
miliziani con l'inganno glielo impedirono e la portarono verso il cimitero.
Tentarono poi di farle gridare: "Viva il comunismo!" Ma ella, cominciando a
correre, gridò: "Viva Cristo Re!" Allora i miliziani le spararono alle
spalle, ella cadde e morì.
Le tre carmelitane spagnole hanno il "privilegio" di subire il martirio proprio
il giorno in cui - allora - al Carmelo si celebrava la memoria dei martiri
francesi (il 24 luglio appunto). Sognavano il martirio, come le consorelle
francesi di Compiègne salite sul patibolo al canto della SALVE REGINA il 17
luglio 1794.
Per fortuna in tanto orrore che imperversava nelle città e paesi, i corpi furono
subito raccolti e identificati e quindi poterono essere conservati e il 10
luglio 1941 debitamente riconosciuti; due giorni dopo le salme furono trasferite
solennemente al loro Carmelo di Guadalajara, dove sono state sempre oggetto di
devozione dei fedeli, che vi giungono in pellegrinaggio.
Il primo processo per il riconoscimento del martirio, venne fatto a Guadalajara
- Siguenza negli anni 1955-58; dopo il ‘silenzio’ imposto a tutte le Cause
relative ai martiri della Guerra Civile spagnola, essa fu ripresa nel 1982 e
dopo tutti i successivi processi positivi, si giunse alla beatificazione.
Papa Giovanni Paolo II, il 29 marzo 1987, nella Basilica di S. Pietro,
beatificò le tre monache professe dell’Ordine delle Carmelitane Scalze,
fissandone la festa comune al 24 luglio.
27 Luglio: Beato Tito Brandsma
Anno Bjoerd (questo il nome di battesimo) nacque a Bolsward, Frisia (Olanda), il 23 febbraio 1881. Dopo il ginnasio presso i francescani di Megen, a 17 anni venne accolto tra i carmelitani di Boxmeer, prendendo il nome di Tito (quello di suo padre). Nel 1905 venne ordinato sacerdote.
Nel 1909, all’Università Gregoriana di Roma,
si addottorò in filosofia, disciplina che insegnerà poi per 33 anni, prima ai
carmelitani di Oss, poi all’Università Cattolica di Nimega. Lo affascinarono due
campi di lavoro apparentemente lontani tra loro: il giornalismo e lo studio
degli antichi autori mistici. Come giornalista cominciò fin da studente a
collaborare ai periodici locali, e fondò una rivista di cultura carmelitana. Da
sacerdote divenne caporedattore del quotidiano di Oss, la città nel cui convento
risiedeva.
Come studioso di mistica - dopo un lungo viaggio di studio in Spagna - iniziò la
pubblicazione in lingua olandese delle opere di S. Teresa d'Avila. Ebbe una
visione profonda del carisma carmelitano, del quale ne delineò in brevi tratti
soprattutto il "cuore mariano".
Nel 1923 venne fondata a Nimega l'Università Cattolica, e a Tito venne offerta
la cattedra di filosofia e di storia della mistica. Ed è soprattutto questa
materia che lo attrasse: si specializzò nello studio dei grandi mistici
carmelitani e nella ricerca sui mistici medievali olandesi. Sulla sua vita di
"consacrato", non c'è molto da dire, se non che egli riscosse la stima di tutti
per la serietà e la bontà con cui viveva la sua vocazione religiosa,
amalgamandola con gli impegni professionali. Nel 1933 il nazismo andò al potere
in Germania. Arrivarono le prime persecuzioni contro gli ebrei tedeschi, e
dall’Olanda si reagì (1936) con la pubblicazione di una raccolta di articoli
antinazisti. Uno di essi diceva: "Ciò che si fa ora contro gli ebrei è un
atto di vigliaccheria. I nemici e gli avversari di questo popolo sono davvero
meschini se ritengono di dover agire in maniera così disumana, e se in tal modo
pensano di manifestare o di aumentare la forza del popolo tedesco, ciò è
l'illusione della debolezza". Quello che chiamava vigliacchi i superuomini
del nazismo era proprio lui, il fragile padre Tito.
Non è difficile immaginare come dovessero bruciare queste espressioni a coloro
che pretendevano di imporre il culto della razza ariana, declamandone la forza,
la nobiltà e la mistica superiorità.
Un quotidiano berlinese, in un articolo lo chiamava "Quel professore
maligno".
La costituzione del "Partito nazionalsocialista olandese" (N.S.B.) avvenne già nel 1936, e immediatamente i Vescovi proibirono ai cattolici di aderirvi. Nel 1937 Pio XI promulgò l'Enciclica "Mit brennender Sorge" in cui definiva il nazismo "provocante neopaganesimo", "rinnegamento dell'unica Chiesa", "manifesta apostasia".
Nel 1938 la Santa Sede chiese a tutte le
Università Cattoliche di confutare su basi scientifiche le teorie
nazionalsocialiste, in modo da aiutare i credenti in una resistenza anche
culturale. Subito Tito, nell'anno scolastico 1938-39, offrì ai suoi studenti dei
corsi sulle "funeste tendenze" del nazionalsocialismo, in cui affrontò tutte le
tesi nodali: valore e dignità di ogni singola persona umana (sana o malata);
uguaglianza e bontà di ogni razza; valore indistruttibile e primario delle leggi
naturali rispetto ad ogni ideologia; presenza e guida di Dio nella storia umana
contro ogni messianismo politico e ogni idolatria del potere.
Nelle prediche, poi, approfondì l'aspetto religioso della questione, spiegando
che ogni esaltazione della razza, della purezza etnica, della forza era un
tentativo di abolire il Vangelo e di colpire al cuore la fede cristiana.
Non si fermò naturalmente solo alle denunce verbali. Nel 1940 collaborò a un
piano per permettere a 1000 ebrei di emigrare in Brasile (il permesso del
governo brasiliano era stato ottenuto direttamente da Pio XII).
All'inizio del 1941 i Vescovi olandesi dichiararono che l'appartenenza al
Movimento Nazionalsocialista era illecita sotto pena di peccato grave.
E Tito spiegò che l'invasione di una simile ideologia -che definiva "nera
menzogna" - era "più terribile della stessa invasione militare".
Era un uomo di cinquantanove anni,
malaticcio. Di salute precaria, lo era stato per tutta la vita. Per questo,
negli anni della formazione dovette interrompere spesso gli studi; fu a volte
costretto a ritardare degli esami, e dovette perfino superare un attacco di
tisi: lunghi mesi a letto, tra la vita e la morte.
Proprio subito dopo l'invasione dovette farsi ricoverare in ospedale, perché -
disse- "le gambe non mi sorreggono più, e le mie ginocchia si piegano ad ogni
istante".
Ad un amico scrisse: "Per fortuna posso ancora occuparmi di ciò che è
indispensabile, e per il resto mi piego con pazienza".
Maggio 1940: Adolf Hitler invase l’Olanda.
Il piccolo partito nazista locale alzò la testa ed esigette che i giornali
cattolici pubblicassero i suoi annunci, che erano propaganda per l’occupante e
per i suoi vassalli. La circolare di Tito non si fece attendere: "Le
direzioni e le redazioni sappiano che dovranno rifiutare formalmente tali
comunicati, se vogliono conservare il carattere cattolico dei loro giornali; e
questo anche se un tale rifiuto conducesse il giornale ad essere minacciato, ad
essere multato, ad essere sospeso temporaneamente o anche definitivamente. Non
c'è niente da fare. Con questo siamo giunti al limite".
In caso contrario "non dovranno più essere considerati cattolici... e non
dovranno né potranno più contare sui lettori e sugli abbonati cattolici, e
dovranno finire nel disonore" (Lettera circolare del 31 dicembre 1941).
Non passarono quindici giorni che la polizia
fece ricercare Padre Tito; ma poiché era assente a motivo del suo ufficio, non
riuscirono a rintracciarlo prima del 19 gennaio.
Egli era appena rientrato in convento da un lungo viaggio, quando si
presentarono due agenti della Gestapo che, spacciandosi per studenti, chiesero
un colloquio urgente col professor Brandsma.
I vescovi olandesi, che egli aveva rappresentati nella lotta, gli avevano
raccomandato: "In caso di arresto, mettete tutto sul conto nostro". Ma
Tito decise di rispondere di tutto personalmente.
Condotto in un gelido carcere, vi entrò dicendo con ironia al poliziotto che
l'accompagnava: "Non è da tutti esser messi in prigione dopo sessant'anni di
vita onesta". L'altro non capì la battuta, la credette un lamento e
rimbeccò: "Se non volevate finire dentro, non dovevate accettare gli ordini
dell'Arcivescovo".
Così, senza volerlo, sanzionava il fatto che egli era là per la sua obbedienza
alla Chiesa: testimonianza tanto preziosa, quanto non cercata! E infatti Tito
rispose che "considerava un onore" l'esser stato arrestato per quel
motivo.
In cella Tito cominciò a scrivere un diario.
"...La vocazione per la Chiesa e i! sacerdozio mi hanno arricchito di tante
dolcezze e di tante gioie, che ora accetto volentieri tutto ciò che mi può
sembrare sgradito. Ripeto con Giobbe: 'Il Signore ha dato, il Signore ha tolto;
sia sempre benedetto il nome del Signore'... Benché non sappia come andrà a
finire, so bene che mi trovo nelle mani di Dio: 'Chi mi potrà mai separare
dall'amore di Cristo?".
"Certamente mi mancano la Messa e la Comunione, ma Dio è ugualmente vicino a
me, in me e con me... Mi è di consolazione e di sprone i! celebre passo che S.
Teresa teneva nel suo breviario: 'Nada te turbe, nada te espante. Todo
pasa. Dios no se muda... Solo Dios basta"'.
Rifletteva che lui, come monaco, avrebbe dovuto essere abituato a stare in cella
e commentava: "Sì, ma quando si viene messi nella cella di una prigione la
sera tardi e la porta viene chiusa dal di fuori con tanto di catenaccio, si
resta quanto meno perplessi. Poi i! fatto di andare a finire in carcere alla mia
età avanzata mi spinge piuttosto a sorridere per il lato umoristico della
vicenda, che a rattristarmi per la sua tragicità".
Sul tavolino della cella mise bene in vista le sue tre immagini del breviario:
un Cristo in Croce al centro, Santa Teresa a destra, San
Giovanni della Croce a sinistra. Nella mensoletta sopra i! letto teneva i!
breviario aperto là dove c'era una splendida illustrazione della Madonna del
Carmine con la scritta 'Speranza di tutti i Carmelitani'. Così quella
cella di prigione era diventata davvero per lui come la cella del convento.
"Mi trovo in questa cella come a casa mia. O Beata Solitudo! Sono solo, è vero, ma mai il Signore mi è stato così vicino. Sento la voglia di gridare per la gioia perché egli di nuovo, nella sua pienezza, si è fatto trovare da me; non attendo nessuno, e nessun uomo può venire da me. Dio è i! mio unico rifugio e mi sento protetto e felice. Rimarrò sempre qui, se Egli così dispone. Raramente sono stato così felice e contento". E lì in carcere iniziò a scrivere la Vita di S. Teresa, che aveva promesso a una casa editrice.
Ma deperiva a vista d'occhio. In quel primo carcere la vita era ancora
abbastanza umana. Le cose cambiarono quando lo trasferirono ad Amersfoort, una
prigione che i tedeschi avevano attrezzato come "campo di passaggio" prima delle
deportazioni...
Era già un vero lager dove erano ammassati i prigionieri politici identificati
da un triangolo rosso (i cosiddetti "comunisti", tra i quali stava anche Tito),
gli ostaggi olandesi, gli ebrei, gli "esegeti" (appartenenti a una setta
religiosa, che usavano la Bibbia per profetizzare la caduta di Hitler), gli
ufficiali dell'esercito olandese.
Un altro gruppetto a parte era costituito da 160 prigionieri russi. Ma durarono
poco: vennero lasciati per tre giorni nudi al gelo. Ne morirono metà in due
mesi. Gli altri furono tutti torturati e uccisi.
Qui Tito cominciò a intravedere la croce che lo attendeva. Ogni domenica i
cattolici gli si radunavano attorno e lui, seduto sul letto più alto, parlava
tranquillamente. Sembrava una normale conversazione, ma in realtà egli
pronunciava lentamente le parole della Messa.
Non avevano il necessario per celebrare una vera Eucaristia, ma Tito recitava a
memoria le preghiere, poi commentava un brano evangelico. Alla fine c'era la
'comunione spirituale': egli li fissava uno per uno negli occhi e per ciascuno
diceva la formula che allora si usava per la distribuzione dell'Ostia santa: "Il
corpo di Nostro Signore Gesù Cristo custodisca la tua anima per la vita eterna.
Amen".
A far la guardia, per avvertire se i sorveglianti si avvicinavano, si erano
offerti i comunisti. Alla sera ciascuno riceveva ancora la benedizione e un
segno di croce in fronte.
Era il Venerdì Santo del 1942; i guardiani del campo si diedero a un'orgia
sfrenata. Poi misero una corona di spine, fatta con fili di rame, sulla testa di
un prete e costrinsero i prigionieri a cantare l'inno tedesco: "O capo
coronato di pungenti spine"; intanto un ebreo era obbligato a fare il
racconto della crocifissione.
Alla sera di quel terribile giorno, P. Tito tenne loro segretamente una
meditazione sul mistero della sofferenza. Abbiamo il racconto di un testimone.
"Attorno a lui, i prigionieri erano sulle brande disposte in tre file. Tutta
la baracca puzzava di zoccoli marci, di vesti sudice e di sudore. Quegli uomini,
dalle teste rapate, lo guardavano con gli occhi spenti e un po' sinistri...
Esattamente davanti a me, in piedi sopra una cassetta vuota di patate, il
professor Tito, nella sua grigia uniforme, ci parlò della Passione...
"Le parole che gli uscivano direttamente dal cuore, scendevano fino in fondo. E
tutta la baracca taceva, mentre quel gracile uomo grigio meditava ad alta voce,
da sopra la sua cassa. I suoi occhi brillavano dietro le grosse lenti, e
facevano dimenticare il resto della sua cenciosa e meschina figura. Il silenzio
si fece quasi oppressivo. Ciascuno lottava con i suoi problemi e la sua miseria,
ma il P. Tito dava a tutti una soluzione: il nostro amore per Dio".
Disse: "In questo giorno ci deve essere in noi un'atmosfera di felice
riconoscenza, perché possiamo vedere la passione di Cristo unita alla nostra
sofferenza".
Raccontò uno dei suoi ascoltatori: "Siamo ritornati in silenzio nelle
nostre baracche; nessuno parlava: lo spirito di Dio ci aveva sfiorati".
Altri dissero poi che quello era stato il momento più bello della loro
prigionia. I guardiani subodorarono qualcosa di questa strana riunione, e
l'indomani Tito fu punito: toccò a lui trascinare il pesantissimo rullo che
serviva a spianare la ghiaia sulla strada.
Al campo era tanta l'affezione che ormai provavano per lui, che tutti lo
chiamavano "zio Tito". Gli chiedevano conforto ebrei, protestanti, comunisti,
atei, e tutti ogni mattina lo ascoltavano mentre, seduto al centro del camerone,
raccontava la vita del Santo del giorno. Anzi si lamentavano perché avrebbero
voluto racconti più lunghi.
Un giovane prigioniero - poiché Tito si rammaricava a volte d'aver dimenticato
la corona del Rosario quando la Gestapo lo aveva trascinato via dal convento -
gliene fece una con dei pezzetti di legno e di rame.
Restò in quell'orribile carcere fino al mese di maggio, ma ormai non sperava più
negli uomini. "Non mi molleranno più e andrò certamente a Oraniénburg o a
Dachau, da dove non si torna".
Tito commentò in una lettera al fratello: "Ho
messo tutto nelle mani di S. Giuseppe che ha portato il piccolo Gesù dall'Egitto
a Nazaret. Come Gesù e la Madonna, mi affido alla sua potente protezione.
Unisciti anche tu a me nelle preghiere".
E nel cuore custodì quel consolante pensiero che era alla radice stessa della
sua fede: "Dio è dovunque!".
Lo fermarono nel carcere di Kieve, in attesa di essere smistato; partivano una
quarantina di prigionieri ogni settimana. Il cappellano del carcere, che lo
conobbe nei giorni della triste attesa, disse di lui: "Dio mi ha concesso la
grazia di incontrare un uomo pieno di fede".
Partì in catene il 13 giugno 1942, e l'ultima parola che quel cappellano udì
pronunciare da Tito fu: "Non può accadermi nulla di male, perché il Signore
mi accompagna".
Di questo aveva una certezza assoluta, tanto più che la sera precedente aveva
potuto fare la Santa Comunione. Quando giunse al campo, il 19 giugno 1942, il
primo incontro fu con un "capoblocco" (uno dei famigerati Kapos) che
nutriva un odio particolare verso gli ecclesiastici. Costui si divertì a
percuoterlo con una tavola, tanto per fare conoscenza, e durante la marcia si
dedicò a dargli calci nei talloni fino a farglieli sanguinare. E questo a un
anziano, macilento e malato!
Il trattamento gli fu poi riservato sistematicamente ogni giorno. Vedendolo così
malridotto, una SS gli disse ghignando di non preoccuparsi perché presto "avrebbe
potuto festeggiare la sua Ascensione, passando per il camino del forno
crematorio".
I carcerati dovevano lavorare come forzati
per 13 ore al giorno e non c'erano né domeniche né giorni di riposo. Tra lavoro,
marce e appelli, la giornata era terribile: cominciava alle quattro del mattino
e finiva alle nove di sera. P. Tito "era trattato come il Cristo flagellato",
ma non c'era modo che gli uscisse di bocca una critica verso i suoi aguzzini.
Era lui anzi che diceva di un sorvegliante, che gli aveva fatto sanguinare la
bocca colpendolo con una gavetta: "Poveretto, mi fa tanta pietà, non posso
volergli male".
Si affidava ai suoi amori più cari: la Madonna del Carmelo d'Eucaristia.
Racconta un suo confratello: "La sera, tornando sfiniti dal lavoro e
frequentemente anche dalle percosse, Tito mi diceva: Fratello, Maria deve
aiutarci e sostenerci; se essa allunga la mano sopra di noi, potremo sopportare
molto...".
Prezioso era soprattutto il sostegno dell'Eucaristia che i prigionieri
riuscivano ad avere quasi ogni giorno dai sacerdoti tedeschi prigionieri nel
campo, ai quali era concessa un po' più di libertà. Una particella la conservava
fino al giorno dopo nella custodia degli occhiali, e col resto si comunicavano
anche in 10, e ogni volta rischiavano le più crudeli punizioni.
La notte, in cui per molte ore non riusciva a dormire, Tito la passava adorando
quel pezzetto di Ostia santa e affidandogli la sofferenza di tutti. Diceva che
anche Lui, Gesù Eucaristia, era "un grande prigioniero".
Un "Pastore" protestante, che lo conobbe e lo ammirò in quel lager, disse che P.
Brandsma era riuscito ad avere "il paradiso del cuore, nell'inferno del campo",
e a diffondere attorno a sé la pace e la gioia di Cristo.
Era talmente sfinito che i suoi confratelli di prigionia un giorno credettero di
far bene raccomandandolo al capo della sezione ospedaliera, per un ricovero.
Costui si mostrò anche troppo disposto ad aiutarli, e Tito venne portato via.
Non lo rividero più.
Tutto quello che avvenne poi, lo sappiamo da una testimone d'eccezione.
Allora era una ragazza che faceva l'infermiera, ma obbediva per paura agli
ordini disumani dell'ufficiale medico. A lei toccavano in pratica tutte le
esecuzioni.
E' stata lei a raccontare che Tito "al
suo arrivo in infermeria stava già nella lista dei morti".
E' stata lei a raccontare gli esperimenti che si facevano sui malati, anche su
Tito, e di come le si scolpivano dentro, senza che lei lo volesse, le parole con
cui Egli sopportava i maltrattamenti: "Padre, sia fatta non la mia volontà,
ma la tua".
E' stata lei a raccontare come tutti i malati la odiassero e la insultassero
sempre con i titoli più infamanti, odio che lei cordialmente ricambiava; e come
rimase scossa perché quell' anziano prete la trattava invece con la delicatezza
e i! rispetto di un padre: "Una volta mi prese la mano e mi disse: 'Che
povera ragazza è lei, io pregherò per lei!' ".
A lei il prigioniero regalò la sua povera corona del rosario, fatta di rame e di
legno; e quando ella irritata ribatté che quell' oggetto non le serviva perché
non sapeva pregare, Tito le disse: "Non occorre che tu dica tutta l'Ave
Maria; di' soltanto: 'Prega per noi peccatori"'.
E a lei quel 25 luglio 1942 i! medico del reparto diede l'iniezione di acido
fenico perché glielo iniettasse in vena. Era un gesto di routine, l'infermiera
l'aveva ormai compiuto centinaia e centinaia di volte, ma la poveretta ricorda:
"Tutto quel giorno mi sentii male". L'iniezione venne fatta alle due meno
dieci e alle due Tito morì. "Ero presente quando spirò... Il dottore era
seduto vicino al letto con uno stetoscopio per salvare le apparenze. Quando il
cuore cessò di battere, mi disse: 'Questo porco è morto"'. Aveva sessantuno
anni.
Dei suoi aguzzini P. Tito aveva sempre detto: "Sono anch'essi figli del buon
Dio, e forse rimane in loro ancora qualche cosa...".
E Dio gli concesse proprio quest'ultimo miracolo. Il dottore del campo chiamava
sarcasticamente quell'iniezione di veleno: "iniezione di grazia". Ed ecco
che, mentre !'infermiera gliela iniettava, era !'intercessione di Tito che
infondeva davvero in lei la grazia di Dio.
E la poveretta, ai processi canonici, spiegò che il volto di quel vecchio prete
le era rimasto impresso nella memoria per sempre perché vi aveva letto qualcosa
che ella non aveva mai conosciuto. 'Disse semplicemente: "Lui aveva
compassione di me!". Come Cristo.
Ci fu l’ordine di bruciare anche le carte
che lo riguardavano, ma il fascicolo di P. Tito (verbali dei processi, prove a
carico, appunti dal carcere, e ritratto in uniforme da internato, fatto da un
compagno di prigionia) fu salvato dall'inceneritore. Colui che era stato
incaricato di distruggerlo, non ebbe il coraggio di eseguire l'ordine: "In
queste carte - disse - c'è qualcosa di straordinario, non ho il coraggio
di bruciarle".
Così la Chiesa ha avuto a disposizione le prove necessarie che dimostrano, oltre
ogni possibile dubbio, che P. Tito Brandsma fu ucciso proprio in odio alla sua
fede e alla sua missione sacerdotale, e non solo per motivi politici.
Il 3-11-1985 è stato proclamato Beato
da Giovanni Paolo II.
Alcuni scritti del
beato Tito Brandsma:
Seguire Cristo richiede impegno
Estratto di un discorso tenuto da P. Tito a giovani
studenti, il 28 ottobre 1936.
« Noi Olandesi dobbiamo stare doppiamente in guardia. Siamo così inclinati alla
mediocrità che la nostra parola d'ordine è: non esagerare. Per questa ragione
soffochiamo ogni spontaneità. Ma non lo diciamo.
Noi parliamo di prudenza, così non veniamo in conflitto con quelli che non la
pensano come noi. Non pensando che essi avrebbero più ammirazione per il nostro
eroismo, prontezza al sacrificio e amore del prossimo; piuttosto che per quella
irrisolutezza colla quale non si sa cosa siamo, a che cosa serviamo.
Noi chiamiamo questo: posatezza e realismo. Non vogliamo perdere la testa. Così
c'è tanta riservatezza in noi, tanto rispetto umano, tanto freddo calcolo. Amore
è sacrificio sono spariti in noi. Invece di considerarci degli eroi, gli
avversari non vedono in noi che gente mediocre, priva di qualunque
caratteristica".
(Dal Processo di Beatificazione, 1979, pago 404).
Noi vinceremo con l'amore
Estratto di una predica tenuta da p. Tito il 16 luglio 1939,
nella memoria dei santi olandesi Willibrodo e Bonifacìo. Sono i passi in cui
egli dichiara che solo l' amore cristiano può vincere il neopaganesimo nazista.
“In questo tempo di fiacchezza, quanto dobbiamo, ammirare questi due uomini
Willibrodo e Bonifacio che, pur sapendo di rimetterci probabilmente la vita,
ciononostante parlano di Dio e tentano di unire gli uomini con Dio, perchè sanno
e credono che questo li farà felici... Viviamo in un mondo nel quale si condanna
persino l'amore chiamandolo debolezza da superare. Niente amore, si dice, ma
sviluppo della propria forza. Ciascuno sia il più forte possibile, lasci perire
i deboli.
Dicono che la religione cristiana, con la predicazione dell'amore, abbia fatto
il suo tempo e debba essere sostituita dall'antica potenza germanica. Oh!, sì,
vengono a voi con queste dottrine e trovano gente che le accetta volentieri.
L'amore viene disconosciuto. “Amor non amatur” diceva già San Francesco d'Assisi
ed alcuni secoli più tardi, a Firenze, S. Maria Maddalena de' Pazzi suonava, in
estasi, la campana del monastero delle monache carmelitane per dire alla gente
come sia bello l'amore.
Oh! anch'io vorrei far suonare le campane per dire al mondo come è bello
l'amore. Benchè il neopaganesimo (nazionalsocialismo) non voglia più l'amore,
nondimeno noi vinceremo con l'amore questo paganesimo. La storia lo insegna. Noi
non abbandoneremo l’amore. Esso ci riguadagnerà il cuore dei pagani. La natura è
superiore alla teoria. Lasciamo la teoria condannare e respingere l'amore e
chiamarlo una debolezza. Ciononostante la pratica della vita lo farà sempre
nuovamente essere una forza che vince e che tiene legati i cuori degli uomini.
“Guarda come si vogliono bene tra loro”. Questa frase dei pagani in merito ai
primi cristiani, i neopagani dovranno dirla nuovamente di noi. Così vinceremo il
mondo”.
(Dal Processo di Beatifìcazione, 1979, pag. 411).
28 Luglio: Beato Giovanni Soreth
Il
Soreth nacque presso Caen in Normandia nel 1394 ed entrò tra i Carmelitani di
questa città. Sacerdote verso il 1417, fu maestro in teologia (Parigi, nel 1438)
e poi reggente di studi. Fu Provinciale della sua Provincia di Francia nel 1440
- 1451 e Priore Generale dell'Ordine dal 1451 fino alla morte.
Egli è ricordato soprattutto come "riformatore", ciò per la sua continua opera
dedicata a ricondurre l'Ordine allo splendore dell'osservanza regolare, in un
periodo storico particolarmente critico.
Si esercitò in maniera eroica ed esemplare alla preghiera, umiltà, penitenza e povertà. Attirò all'Ordine molti giovani ed anche donne che con lui cominciarono una vita conventuale.
Il 10 maggio 1452 Soreth ricevette
nell'Ordine le beghine di Ten Elsen della Provincia di Geldern, presso Mars, in
Olanda. Tre mesi più tardi, durante la visita alla Provincia Toscana, gli si
presentò un caso simile a Firenze. Nella festa dell' Assunta del 1450 parecchie
donne erano state rivestite del bianco manto dell'Ordine in quella città;
continuavano a vivere a casa loro, ma presto formarono una comunità. Era venuto
il tempo di regolarizzare la situazione delle donne che seguivano la regola del
Carmelo. Riunite insieme in comunità, venivano a creare dei problemi canonici,
non ultimo dei quali quello delle decime e degli altri diritti parrocchiali, che
non si ponevano invece finché vivevano privatamente.
Il papa Nicolò V con la Bolla Cum Nulla indirizzata al "Reverendissimo
Signor Generale dell'Ordine di Santa Maria dei Carmelitani in Roma", Giovanni
Soreth e ai Provinciali dell'Ordine concesse di accettare l'ammissione
nell’Ordine e la protezione delle pie vergini, vedove, beghine e mantellate che
vivevano singolarmente e in gruppi o che in futuro si fossero presentate con
l'abito.
Giovanni Soreth scrisse un importante
commento alla Regola carmelitana. Il titolo in latino suona Expositio
paraenetica.
Il suo intento era di presentare il carisma proprio dei carmelitani
conservandolo nel grande alveo della tradizione, cioè partendo dai grandi padri
del monachesimo, Cassiano, Bernardo, i Vittorini, gli autori della Devotio
moderna e, in ambito propriamente carmelitano, dell'Istituzione dei primi
monaci.
Il fondamento da cui prendeva le mosse era la Regola mitigata approvata dal Papa
Eugenio IV. Soreth voleva far comprendere che, malgrado tutte le attenuazioni
relative alla vita ascetica, un punto rimaneva fermo ed indiscutibile: la
tensione del Carmelitano alla ricerca dell'unione con Dio e la pratica costante
dell'orazione. Per Soreth la perfezione, riallacciandosi così alla dottrina di
Cassiano e all'insegnamento di tutto il monachesimo, era individuata nel cuore
stesso del monaco che doveva purificarsi, soprattutto, con la vigilanza e la
comunione continua con Dio.
Tutto ruotava e si focalizzava intorno a questo desiderio che aveva bisogno di
esprimersi concretamente; da qui la ragione e la necessità della solitudine,
della vita fraterna, del silenzio che pervadeva la vita quotidiana del
carmelitano e di tutti quei mezzi di mortificazione e di penitenza che venivano
interiorizzati e resi armoniosi solo dall'amore.
Per il monaco carmelitano era possibile vivere questo ideale qualora ricordasse
che la "cella" era per lui "terra santa", il luogo che la regola gli indicava
per concretizzare il suo ideale. Così gustava, ancora nella storia, il cielo.
Si costruiva quindi, giorno dopo giorno, la
personalità profonda del monaco carmelitano, intessuta di raccoglimento e di
unione con Dio, di intensa meditazione, considerata come la via alla
contemplazione.
I fratelli carmelitani apprezzavano il loro stile di vita austera e ricercavano
un' autentica povertà, sia personale sia comunitaria.
La novità di Soreth era l'accoglienza della forma meditativa tipica della
Devotio moderna, che introduceva così un afflato peculiare del suo tempo
nella grande tradizione orante del Carmelo.
Con questa grande figura la tradizione carmelitana si apriva ufficialmente anche
alle donne.
La Bolla Cum Nulla che concedeva l'autorizzazione pontificia di ricevere
donne nell'Ordine Carmelitano poteva essere perciò considerata come l'inizio
delle comunità monastiche femminili regolari. Da Firenze iniziava l'espansione
dei primi Monasteri femminili in altre città dell'Italia settentrionale.
Soreth valorizzò nel Nord Europa l'opera svolta dalla Beata Francesca d'Amboise,
alla quale egli stesso diede l'abito.
La Bolla Cum Nulla non segnava solo la nascita di sei Monasteri
claustrali femminili, ma concedeva ai Carmelitani la facoltà di avere un Terz'Ordine
(Ordine Secolare). Per questo essa segnava anche la loro nascita. [Esiste oltre
a questa Bolla un altro documento che in modo ancor più chiaro concedeva ai
Carmelitani tale facoltà ed è la Bolla Dum Attenta di Sisto IV, promulgata il 28
novembre 1476].
Soreth proseguì attivamente l'opera della riforma del Carmelo, incontrando qualche volta una ostinata resistenza. A Colonia, infatti, fu cacciato con violenza dal Convento e dovette ricorrere alla scomunica per far sottomettere i religiosi ribelli, alcuni dei quali, furono colpiti da subitanea morte.