NOVEMBRE
Beata Francesca D'Amboise Beata Josefa Naval Girbés
Beato Francesco Palau Beata Elisabetta della Trinità
San Raffaele Kalinowski Beatissimi Dionisio e Redento - martiri carmelitani
5 Novembre: Beata Francesca D'Amboise.
Nacque
probabilmente a Thouars (Francia) il 28 settembre 1427 da Luigi, Visconte di
Thouars e Maria di Rieux dei Baroni d’Encenis. Promessa sposa, all’età di appena
quattro anni, a Pietro II, secondogenito del Duca di Bretagna, passò il resto
della sua giovinezza presso la futura suocera Giovanna, sorella di Carlo VII, re
di Francia, donna di profondissima pietà. Costei riuscì a infonderle quello
spirito profondamente cristiano ch'ella stessa aveva a sua volta ricevuto dagli
insegnamenti di S. Vincenzo Ferreri. Bambina e
poi adolescente abituata alle vesti di lusso, agli sfarzi e ai privilegi della
sua posizione nobile, Francesca, fu illuminata dalla fede e cercò
il Volto di Dio nella preghiera e nelle letture. Nel 1442, a quindici
anni, passò sposa a Pietro II insieme al quale fu incoronata nella cattedrale di
Rennes nel 1450. I biografi rivelano un episodio del primo anno di matrimonio –
il pellegrinaggio nel quale gli sposi si posero sotto la protezione della Madre
di Dio - quale segno di unità di intenti con il marito, che stimò sempre la
purezza e la carità di Francesca, al di là delle insinuazioni di qualche
cortigiano, da cui in alcune occasioni fu mosso a gelosia e rimproveri. Con la
pazienza e il perdono della moglie fedele, tornò la calma e con essa la
guarigione dalla malattia che la sofferenza le aveva causato. Francesca ebbe un
influsso veramente benefico e profondo sul marito, sia per l'andamento della
corte in genere sia per quanto riguardava lo Stato, tanto che i sette anni del
suo governo saranno ricordati presso tutto il suo popolo e i suoi sudditi come
"i tempi della beata duchessa". Ella infatti non trascurò i bisogni dei conventi
e delle chiese né la miseria degli abitanti, provvedendo loro con sollecitudine
e larghezza; imparò a fare il bene, pronta di fronte alle necessità dei poveri e
dei malati.
Il duca Pietro II morì il 22 settembre 1457. Gli anni
che seguirono non furono facili per la giovane vedova. Al centro di
macchinazioni economiche-ereditarie venne ricercata per le seconde nozze ma –
protesa verso Dio e dedita alla verità e all’amore– vi si oppose risolutamente,
nonostante le forti pressioni e quelle stesse del Re di Francia e, desiderando
orientarsi verso la vita religiosa, si curò soltanto delle cose del Signore e
dei poveri. Conserviamo ancora una sua ardente preghiera di questo periodo:
Mio Dio!
Vi supplico di accogliere nell'eterno riposo, l'anima di fuoco del mio
signore e marito. Quanto a me, so bene che Voi desiderate tutto il mio
cuore e il mio amore intero.
Voi ne avete posseduto sempre la parte più grande e migliore,
tuttavia, ce n'era una per colui con il quale ero stata congiunta
con il legame del matrimonio.
L'avete richiamato a Voi, io non ne voglio più altri e
prometto, fin da ora, di non risposarmi mai più, non volendo altri
che Voi e per Vostro amore.
Nel 1459 Francesca conobbe Padre Giovanni Soreth, il
Priore Generale dei Carmelitani e comprese quale fosse la via da seguire: si
orientò completamente e con decisione al Carmelo, mettendo a disposizione i suoi
stessi averi per la fondazione del primo Monastero carmelitano femminile in
Francia. Esso sorse a Bondon, presso Vannes, nel 1463, con le monache che il
Beato Soreth aveva fatto trasferire dal Monastero di Liegi. Il 25 marzo 1468
ella entrò in Monastero ricevendo l’abito dallo stesso Giovanni Soreth e
pregando tutte di chiamarla “umile serva di Gesù Cristo”, convinta che al
Carmelo “non si debbano applicare i criteri del mondo”. Non più duchessa,
dunque, ma discepola del Crocifisso; anche quando venne eletta Priora, ripeteva:
“Pensate che siamo tutte sorelle con lo stesso abito e la stessa professione”.
Francesca aveva un carattere forte, tuttavia aveva pure una comprensione materna
per le sorelle a lei affidate. La sosteneva anche un acuto senso psicologico che
l'aiutava a percepire il modo in cui poter dirigere il Carmelo.
Mossa dallo Spirito del Signore correggeva con saggezza e amore, quale madre
premurosa e forte, come attestano le “Esortazioni”, raccolte dalle sue figlie: “Dovreste
fare a gara tra voi a chi sarà la più umile, la più dolce, la più caritatevole,
contenta ciascuna di quel che vuole l’altra”. La sua bocca parlava dalla
pienezza di un cuore abitato dalla Parola e radicato nella Regola: “Mi
piacerebbe – diceva - che ci si abituasse a meditarla”. Audace nelle
sue fondazioni, profetica nei pensieri e nelle scelte, rimase attenta alle
vicende del suo tempo: “Vi raccomando la pace tra i principi”; “vi
raccomando le necessità della Francia e della Bretagna”.
Si consumò fino alla morte per vivere e insegnare il cammino della luce: "La
regola non è più lunga per l'una che per l'altra... Stare a pensare e a
discutere chi sia la dama più importante, chi provenga dalla famiglia più nobile
e più ricca, è dottrina del demonio. Non dovete fermarvi mai in tali
fantasie. È il nemico dell’inferno che vi inganna”. “Vi raccomando di
curare sia l’anima che il corpo, con tale discrezione da poter servire meglio
Dio e la religione. Si può servire meglio sani che malati”. “Vi prego di
essere sempre contente di quello che vi si dirà e darà da fare”. “Vi dico
che i tempi santi non fanno le persone sante, ma le persone sante, buone e
devote, fanno santo il tempo”. “Non vi deve importare che si dica di voi
bene o male, ma di essere limpide e pure nell’intimo. Se Dio è per voi, chi sarà
contro di voi?”. “La strada diritta per andare in paradiso è la croce, è
la prima porta”. “Abbiate una grande carità le une verso le altre.
Amatevi scambievolmente, tranquillizzatevi a vicenda e riconoscete che il torto
è dalla vostra parte. Non vi umilierete mai tanto come colui che è nato per voi
in grande umiltà e povertà”. Risoluta a lasciar l’incarico di priora, non fu
esaudita perché troppo amata e ritenuta, dalla Comunità, donna di equilibrio e
pace, carmelitana vigilante e prudente nel parlare, convinta com’era che “le
parole vane mostrano coscienze vane”. Ella spesso usava pronunciare queste
parole: "Su tutte le cose fate sì che Dio sia sempre il più amato!"
La sua testimonianza di Gesù resta viva, il suo messaggio è tuttora efficace: “Mettete
tutto ai piedi della sua Croce e là riposate in pace”.
Pensò in seguito di fondare un secondo Monastero e
precisamente nove anni dopo, nel 1477, a Nantes, mettendolo sotto la protezione
della Madonna des Couets (de Scotùs): due anni dopo proprio questa nuova
fondazione avrebbe accolto le monache rimaste dell'ex Monastero di Bondon.
Per queste fondazioni, per le sue indiscutibili virtù e capacità
organizzative, per l'influsso sulla legislazione adottata sul suo ed in altri
Carmeli francesi, venne riconosciuto a Francesca il titolo di fondatrice delle
Carmelitane in Francia.
A lei si deve l'introduzione della pratica della Comunione frequente (e per le
monache ammalate anche quotidiana) e l'imposizione per voto, sotto pena di
scomunica, della strettissima clausura che impediva sia l'accesso al Monastero a
tutte le persone estranee (comprese le donne), sia l'uscita delle monache dal
recinto claustrale.
Con tale voto anticipò di un secolo la legislazione di S. Pio V e preservò le
sue religiose da quei danni che la mancanza di clausura produsse a quei tempi in
altre parti.
Francesca morì a Nantes il 4 novembre 1485. Durante la Rivoluzione Francese le monache furono costrette ad abbandonare il Convento; i ricordi di lei furono dispersi ed il suo corpo venne profanato.
Le si attribuiscono alcune istruzioni claustrali, il
cui manoscritto sarebbe andato perduto e alcune meditazioni pubblicate da
Christophe Le Roy.
Il suo culto liturgico venne riconosciuto da Pio IX il 16 luglio 1863, in
“premio” dell’attaccamento dei bretoni alla Chiesa cattolica e alla loro
duchessa. Fu beatificata da Pio IX nel 1866. Oggi la festa si celebra il 5
novembre.
La Beata di solito è raffigurata con gli occhi rivolti al Crocifisso che ella
tiene tra le sue mani; sul suo abito carmelitano porta la cappa di ermellino
(invece che di lana), per ricordare il suo rango di duchessa.
Si conserva una sua preghiera particolarmente toccante:
Signore,
siate benedetto per tutto quanto mi mandate,
infatti ho meno da soffrire
di quanto abbia meritato per le colpe
e i peccati commessi,
con i quali ho inquinato ed inquino tutti i miei giorni, da cattiva persona
quale sono.
6 Novembre: Beata Josefa Naval Girbés.
Nacque l'11 dicembre 1820 ad Algemesí (Valencia, Spagna) sulle rive del fiume Jucar; primogenita dei sei figli di Vincenzo Naval e Josefa Girbés, di modeste condizioni economiche. A otto anni ricevette la Cresima e a nove la Prima Comunione; la scuola pubblica esisteva solo parzialmente, pertanto frequentò la scuola di una vicina di casa dove, oltre che leggere e scrivere, imparò i lavori femminili, specie il ricamo in seta ed oro, che le sarà tanto utile in seguito. Il 19 giugno 1833 le morì la madre (a soli 35 anni) e Josefa che aveva 13 anni, dovette lasciare la scuola e badare alla casa ed ai fratelli sostituendo la mamma, e, quando la famiglia si trasferì in casa della nonna e dello zio materno, alla cura dei fratelli e del padre, si aggiunse l’assistenza della nonna cagionevole di salute e dello zio.
Ma la sua vita non fu dedicata solo alla famiglia,
ella frequentava la parrocchia e faceva la Comunione ogni giorno, affidandosi
alla guida spirituale del parroco don Gaspare Silvestre; a 18 anni, il 4
dicembre 1838, si consacrò a Cristo con il voto di castità; praticò facendone
norma di vita, i tre principi ispiratori, obbedienza, laboriosità, perseveranza.
Josefa percorse il cammino della preghiera e della perfezione evangelica in una
vita di semplicità e di ardente carità. Nell' ambiente della comunità
parrocchiale si dedicò assiduamente alle opere di apostolato.
Quando nel 1847 morì la nonna, Josefa aveva ormai 27 anni ed era la responsabile
della famiglia, nella quale vivevano il padre, lo zio sostenitore economico ed i
fratelli Vincente di 20 anni e Maria Joaquina di 22.
Quando aveva 30 anni, nel 1850, viventi ancora il
padre e lo zio, con la guida del parroco che la seguì per ventotto anni
(1833-1860), Josefa cominciò a radunare nella sua casa le amiche, per riunioni
di lettura e formazione spirituale; per aiutare concretamente anche tante altre
giovani, trasformò la casa in un vero e proprio laboratorio, dove insegnò
gratuitamente il ricamo.
Non accettò regali dalle famiglie, né particolari servizi da parte delle
giovani; ciascuna portava il suo lavoro privato e lei le dirigeva
nell’esecuzione. La lavorazione era intercalata da pie letture, preghiere,
giaculatorie, cantici, meditazioni, recita del rosario; a Josefa Naval Girbés
interessava soprattutto la formazione morale e spirituale delle giovani,
servendosi appunto del laboratorio di ricamo. Diede loro innumerevoli esempi di
fede viva e affabile, di carità diligente e di gioiosa sottomissione alla
volontà di Dio e a quella dei superiori, così come di grande sollecitudine per
la salvezza delle anime, di singolare prudenza, di pratica costante dell'umiltà,
della povertà, del silenzio e della pazienza nelle contrarietà e nelle
difficoltà. Così quel laboratorio si tramutò in un centro di convivenza
fraterna, di preghiera, di lode a Dio e di spiegazione e approfondimento della
Sacra Scrittura e delle verità eterne. Il suo cruccio fu il ristretto spazio a
disposizione, ormai insufficiente per il numero di frequentanti, che lei avrebbe
voluto allargare a tutte le giovani di Algemesí; la sua influenza sulla vita
spirituale delle ragazze, contribuì non poco a fare scegliere a molte sue
discepole, la strada della vita consacrata in varie Congregazioni.
La sua famiglia si ridusse ancora nel 1862 con la morte del padre e nel 1870 con
quella dello zio, cristiano esemplare che Josefa accudì sino alla fine.
La sua dedizione alla famiglia e poi alle tante giovani frequentanti la sua
casa, non le permise di essere lei stessa una religiosa; fu in effetti una
“monaca di casa”, scelta fatta nell’Ottocento e primo Novecento, da tante anime
elette, che facevano tanto bene al di fuori del chiostro.
Josefa estese la sua opera d’apostolato, insegnando catechismo ai bambini,
organizzando incontri formativi per le donne sposate e nubili, ammonendo con
prudenza i peccatori; come membro della Conferenza di S. Vincenzo, assistette un
gruppo di ammalati, fu consigliera di donne e uomini per i loro problemi,
pacificatrice di discordie familiari. Era noto il fervore con il quale coltivava
la vita interiore, la preghiera, la meditazione, l'accettazione delle difficoltà
e la sua devozione all'Eucaristia, alla Vergine e ai Santi.
Fece parte del Terz'Ordine della Vergine del Carmine e di S. Teresa di Gesù,
professando specialmente un'intima devozione alla Madre di Dio. Ammalata cronica
trascorse gli ultimi due anni della sua vita a letto nella sua casa di Algemesí;
morì circondata dalle sue figlie spirituali il 24 febbraio 1893 e sepolta nel
locale cimitero con grande partecipazione di popolo.
Il 20 ottobre 1946, le sue spoglie mortali furono traslate nella Parrocchia -
Basilica di S. Giacomo di Algemesí.
La causa per la sua beatificazione fu introdotta a Roma il 27 gennaio 1982; papa
Giovanni Paolo II l’ha proclamata beata il 25 settembre 1988. E’ modello per
molte persone che vivono un impegno forte di testimonianza non nel chiostro, ma
nel mondo.
7 Novembre: Beato Francesco Palau
P.
Francesco nacque ad Aytona, (Lerida, Spagna), il 29 dicembre del 1811, settimo
di nove figli di Giuseppe Palau e di Antonia Quer, una salda famiglia cristiana
di profonde tradizioni religiose, onorata per la sua laboriosità. A scuola
spiccava per la sua intelligenza sveglia e riflessiva, amava i libri, e presto
lasciò la natìa Aytona per proseguire gli studi a Lérida (Spagna), grazie
all'appoggio della sorella Rosa che lo accolse in casa. Rimase quattro anni nel
Seminario diocesano di Lérida seguendo i corsi di filosofia e parte di quelli di
teologia, impegnandosi a fondo, nella fedele ricerca del disegno di Dio su di
lui. Quando intuì che la sua vocazione era quella di diventare religioso nel
Carmelo Teresiano, rinunciò alla borsa di studio e cambiò corso alla propria
vita, entrando il 23 ottobre 1832 nel convento carmelitano di San Giuseppe a
Barcellona, ove iniziò il noviziato. Una rivolta generale che incendiò, il 25
luglio 1835, i conventi, mise bruscamente termine all'esistenza claustrale di
Francesco. Gli ideali razionalisti, materialisti, atei, tendevano a sostituire
il Vangelo e la religione come norma di vita. Né le persecuzioni, né le
calunnie, né i conflitti politici riuscirono però a diminuire la fedeltà e
l'impegno di Francesco, che il 2 aprile del 1836 poté essere ordinato sacerdote
a Barbastro (Huesca). Prestò aiuto nella
parrocchia natìa di Aytona; si dedicò alla preghiera solitaria e percorse le
diocesi di Tarragona, Barcellona, Gerona e Vich, sempre fedele alla dimensione
contemplativa e apostolica della vocazione teresiana.
Dopo la disfatta definitiva dei Carlisti, dato che egli, pur senza implicazioni
dirette, operava in territorio carlista, dovette prendere la decisione di
espatriare stabilendosi in Francia. Undici anni
(1840‑51) durò il suo esilio a Perpignan e a Montauban, anni che rivelarono in
Francesco il direttore spirituale, il carismatico, che conduceva un'esistenza
profetica, capace di compiere in sé una straordinaria sintesi degli opposti:
«contemplativo e attivo», l'essere l'«uomo della solitudine e l'uomo
dell'intervento e della parola».
Il susseguirsi delle vicende politiche lo indusse nel
1851 a tornare a Barcellona, ove istituì una scuola di catechesi popolare con il
nome di “Scuola della Virtù”, che divenne presto sospetta al punto di venire
soppressa: di nuovo perseguitato, Padre Palau fu confinato a Ibiza (9 aprile
1854). Trascorre sei anni di solitudine, di intensa vita di preghiera ritirato
sull'isolotto «El Vedrà», difendendosi, dopo un triste intervallo, con lo
scritto “La scuola della virtù”. Soffrì la fame e la persecuzione,
rischiò la morte e fu vittima della calunnia ma furono anni densi di
approfondimenti spirituali, di attività evangelizzatrice, nell'isola e
nell'arcipelago, e di fecondi contatti epistolari in cui si intessevano gli
elementi delle future attività. Liberato nel 1860 in seguito ad amnistia
generale, fece ritorno a Barcellona.
I dieci ultimi anni della sua vita furono
intensissimi. Egli svolse una vigorosa azione apostolica; riorganizzò i suoi
amici e seguaci; iniziò la sua opera fondazionale, la creazione di una nuova
forma di Carmelo missionario, rispondente alle necessità storiche e spirituali
del tempo; scrisse libri da cui possiamo trarre il suo appassionato
insegnamento; infine si applicò, in mezzo a difficoltà e incomprensioni,
all'assistenza dei più emarginati fra i malati, i malati psichici.
Scrisse “La vita solitaria”, una calda difesa dello stretto rapporto tra
vita sacerdotale e vita eremitica o di preghiera; negli anni 1861‑67 nacque
l'opera principale intitolata “Le mie relazioni con la Chiesa”, preceduta
e preparata da due altri scritti: “Quidditas Ecclesiae Dei”, composto
durante l'esilio, ma non pervenutoci, e “La Chiesa di Dio” (1865), che
illustrava la Chiesa Città di Dio con ventuno stampe.
Nel marzo del 1872, essendosi recato ad aiutare le suore impegnate nel soccorso agli appestati di Calasanz (Huesca), contrasse la malattia e, stroncato quasi improvvisamente da una polmonite fulminante, morì al suo ritorno a Tarragona, il 20 dello stesso mese.
In tutti i luoghi in cui si trovava a vivere
incontrava seguaci e compagni di cammino desiderosi di condividere la sua vita,
ma le circostanze gli impedivano la formazione di un gruppo stabile. Fu a
partire dal 1860 che il progetto cominciò a prender forma. I due compiti
prioritari, che allora affidò al suoi seguaci, furono l'assistenza agli
appestati, ai bambini senza scuola.
In conclusione molte e varie furono le attività di Padre Palau. Spesso i suoi
progetti crollarono come castelli di sabbia, ma egli non si arrese mai.
Il carisma fondazionale di P. Palau passò per due fasi, che corrispondevano a due momenti cronologici e a due differenti concezioni della Chiesa chiaramente riscontrabili nella sua esperienza. La prima fase o il primo momento fondazionale si situò nel periodo dell'esilio francese, fino al 1842. Furono i germi, le radici più profonde. In quell' epoca era condizionato da due idee: la rovina della Chiesa spagnola e la necessità di salvarla mediante la preghiera e il sacrificio. Era il tempo in cui redasse l'opera “Lotta dell' anima con Dio”, un'opera indirizzata a quanti amavano la Chiesa (nella sua drammatica situazione in Spagna), nella quale proponeva, come unico mezzo per salvarla dalla persecuzione anticlericale, la preghiera contemplativa. Pensò ad una «associazione» di donne che dedicassero la loro vita alla pura contemplazione e al sacrificio.
Le frustrazioni successive (persecuzioni in Francia, scioglimento delle comunità di Lérida e di Aytona nel 1852, soppressione della «Scuola della Virtù », confino a Ibiza), le possibilità di riflessione offerte dalla solitudine e la nuova situazione politico-religiosa conseguente al concordato del 1851 fra Chiesa e Stato, maturarono e arricchirono il suo spirito, conducendolo da una concezione di Chiesa astratta («Dio solo») a una Chiesa reale e storica («Dio e il prossimo»); da una Chiesa locale (quella spagnola) ad una Chiesa universale. Questa nuova concezione della Chiesa lo spinse a fondare una congregazione nella quale si armonizzassero e si equilibrassero la contemplazione e l'azione apostolica. Si sentiva chiamato a completare nel suo tempo la grande opera riformatrice di Santa Teresa di Gesù, ricuperando al tempo stesso tutta la ricca tradizione contemplativa e attiva dell'antico tronco carmelitano, ormai soppresso dalle leggi liberali spagnole.
L'esposizione teorica definitiva del carisma era già concepita nel 1857, quando egli scriveva le luminose lettere alla collaboratrice Giovanna Gratias sulle «due unioni» con Dio e con il prossimo, fondamento dottrinale del carisma «misto» (Lettere 37-42, fra il giugno e novembre del 1857). Ed è possibile che questa sua tesi originale si basasse su un'attenta lettura delle Mansioni di Santa Teresa, di cui sembra avesse steso un commento, oggi perduto.
La configurazione morale delle congregazioni, maschile e femminile, avvenne dopo l'esperienza interiore avuta il 12 novembre 1860 nella Cattedrale di Ciudadela con la scoperta della propria «missione» ecclesiale di padre (1861). Dalla Chiesa come Corpo Mistico, come Città di Dio (tensione escatologica) P. Palau, a parte la visione (o apparizione) della Chiesa come giovane donna di estrema bellezza, giunse a comprenderla come Realtà personificata e la sperimentò come Persona mistica, collocandola al centro delle sue meditazioni e preoccupazioni. Contemplando Cristo, non poteva far altro se non contemplare Cristo come Capo strettamente unito al suo corpo, la Chiesa, e vivere un rapporto nuziale con Cristo Chiesa, un vero «matrimonio spirituale», dinamico, incondizionato, immerso nell'amore reciproco, di donazione totale alla sua «Amata», come usava chiamare la Chiesa identificata al Cristo totale. In questa esperienza ecclesiale Maria era considerata e descritta come "la figura più perfetta e completa della Chiesa, vergine e madre", "specchio in cui scoprirla", "regina che manda ad annunciare la bellezza della Chiesa". L'esperienza mariana e l'esperienza dell'Eucaristia come mistero di comunione che edificava e consolidava la Chiesa costituirono il fondamento della spiritualità missionaria di Francesco Palau e del suo carisma di fondatore.
In questa opera fondazionale lo stesso Padre Palau
intuì il significato provvidenziale della sua chiamata al Carmelo: «Esaminando
certe vicende della mia vocazione all'Ordine di Santa Teresa, credo di poter
pensare che ella stessa mi chiamò al suo Ordine per questa opera» (Lettera
93 del 17.VIII.1863).
La base giuridica gli venne nel 1867 da parte del P. Pasquale di Gesù Maria,
Procuratore Generale della Congregazione Spagnola dei Carmelitani Scalzi. A
partire da queste date si profilarono un po' alla volta gli statuti giuridici
delle congregazioni, i cui testi definitivi vennero pubblicati nel 1872, poco
prima della sua morte.
Nacque così un nuovo modo di armonizzare la vita contemplativa e il servizio
apostolico, una fusione profonda fra il personale e il comunitario, fra orazione
individuale e orazione ecclesiale, un modo originale di vivere la Chiesa.
Direttore spirituale, scrittore, pubblicista, missionario aggregato alla Congregazione di Propaganda Fide, oggi Congregazione per l'evangelizzazione dei popoli, direttore di una scuola di catechesi per adulti, fondatore, creatore e direttore di un settimanale, esorcista… P. Palau è modello del carmelitano di oggi, spiccatamente contemplativo ed insieme attivo e pieno d'amore alla Chiesa. Esperienza poliedrica che si condensa in una sua frase, slogan della sua beatificazione (Roma, 24 aprile 1988): "Vivo e vivrò per la Chiesa, vivo e morirò per lei " (MR 62).
8 Novembre: Beata Elisabetta della Trinità
E’ la festa di Tutti i Santi Carmelitani, non solo di quelli segnati sul calendario e che veneriamo sugli altari, ma anche di quelli che sono passati sulla terra in punta di piedi, senza che nessuno si accorgesse di loro, ma che nel silenzio del loro cuore hanno dato una bella testimonianza di amore a Dio e ai fratelli. Umili creature, al termine della loro vita, come la Beata Madre Candida, hanno potuto dire:
"Alla
sera della vita, Signore, piena di gioia e di calma, desidero dirti: <<Ho fatto
tutto quello che volevi , mio Dio>>. Guardando la mia vita che tramonta voglio
ripetere con Te, o Gesù, consummatum est, come alla soglia del Paradiso. Posso
tutto, se tu mi dai la forza. L'ho sempre chiesto, mi è stato anche promesso:
sono sicura che mi sarà concesso..."
Fa tanto bene avvicinare l'anima dei Santi e seguirli alla luce della fede, fin lassù nel cielo dove risplendono tutti della luce di Dio e lo contemplano in un eterno faccia a faccia. Questo cielo dei Santi è la nostra patria, è la «casa di Dio» dove siamo attesi, dove un giorno potremo anche noi volare e riposare in seno all'amore infinito. Quando si fissa lo sguardo in questo mondo divino che ci avvolge fin da questo esilio e nel quale possiamo già muoverci, come si dileguano le cose di quaggiù! Tutto è pura apparenza, meno che nulla. I Santi, loro avevano appreso la vera scienza: quella che ci fa evadere dalle cose create, e soprattutto da noi stessi, per lanciarci in Dio e non vivere che di lui!... Egli è in noi per santificarci, chiediamogli perciò di essere lui stesso la nostra santità.
(Beata Elisabetta della Trinità)
Non è forse dall'orazione che Santi come Paolo, Agostino, Giovanni della Croce, Tommaso d'Aquino, Francesco, Domenico, e tanti altri grandi amici di Dio hanno attinto questa scienza divina la quale meraviglia i geni più grandi? Un saggio ha detto: «Datemi una leva, un punto d'appoggio, ed io solleverò il mondo». Quello che Archimede non ha potuto ottenere, perché la sua richiesta non si rivolgeva a Dio ed era espressa solo da un punto di vista materiale, i Santi l'hanno ottenuto pienamente. L'Onnipotente ha dato loro, come punto d'appoggio, sé stesso e sé solo; come leva, l'orazione che infiamma di un fuoco d'amore, e così essi hanno sollevato il mondo; così lo sollevano i Santi della Chiesa militante, e lo solleveranno ancora i Santi futuri, fino alla fine del mondo.
(S.Teresa di Gesù Bambino)
"Mi sono chiesta a lungo perché il Buon Dio facesse
delle preferenze, perché tutte le anime non ricevessero un uguale grado di
grazie; mi stupivo vedendolo elargire favori straordinari ai Santi che l'avevano
offeso, come San Paolo e Sant'Agostino e che Egli costringeva, per così dire, a
ricevere le sue grazie; o leggendo la vita dei Santi che Nostro Signore si è
compiaciuto di coccolare dalla culla alla tomba, senza lasciare sul loro cammino
alcun ostacolo che impedisse loro di elevarsi verso di Lui, e prevenendo queste
anime con favori tali che non potevano fare a meno di conservare immacolato lo
splendore della loro veste battesimale.
Mi domandavo perché i poveri selvaggi, per esempio, morivano così numerosi prima
di aver solo sentito pronunciare il nome di Dio...
Gesù si è degnato di istruirmi su questo mistero, ha messo davanti ai miei occhi
il libro della natura, e ho capito che tutti i fiori che ha creato sono belli,
che lo splendore della rosa e il candore del Giglio non cancellano il profumo
della piccola violetta o la semplicità incantevole della margheritina...
Ho capito che se tutti i fiorellini volessero essere delle rose, la natura
perderebbe il suo manto primaverile, i campi non sarebbero più smaltati di
fiorellini... anche la più umile margheritina, allo stesso modo tutto concorre
al bene di ogni anima".
Così accade nel mondo delle anime che è il giardino di Gesù. Egli ha voluto
creare i grandi Santi che possono essere paragonati al Giglio e alle rose, ma ne
ha creati anche di piccoli, e questi devono accontentarsi di essere delle
pratoline e delle violette, destinate a rallegrare lo sguardo del Buon Dio
quando lo abbassa ai suoi piedi; la perfezione consiste nel fare la Sua volontà,
nell'essere quello che Lui vuole...
Ho capito anche che l'amore di Nostro Signore si rivela tanto all'anima più
semplice, che non oppone alcuna resistenza alla sua grazia, quanto all'anima più
sublime; infatti, dato che il gesto più proprio dell'amore è di abbassarsi, se
tutte le anime assomigliassero a quelle dei Santi dottori che hanno illuminato
la Chiesa con lo splendore della loro dottrina, il Buon Dio non scenderebbe
abbastanza in basso giungendo fino al loro cuore; ma Egli ha creato il bambino
che non sa niente e fa sentire solo deboli grida, ha creato il povero selvaggio
che è guidato solo dalla legge naturale ed è fino al loro cuore che Egli si
degna di abbassarsi, sono proprio questi i suoi fiori di campo la cui semplicità
lo rapisce...
Discendendo in questo mondo il Buon Dio mostra la sua grandezza infinita.
Come il sole rischiara sia i cedri sia ogni fiorellino, come se esso fosse
l'unico sulla terra, così Nostro Signore si occupa in modo particolare di ogni
anima con tanto amore, quasi fosse la sola a esistere"
(S.Teresa di Gesù Bambino)
15 Novembre: festa di tutti i Defunti Carmelitani
P. Raffaele Kalinowski negli ultimi mesi soffrì molto, esaurito dalla malattia e dal lavoro, ma fu instancabile mentre attendeva l'incontro definitivo con il suo Signore. Aveva sognato di morire il 2 Novembre, ma spirò il 15 novembre, giorno in cui l'Ordine del Carmelo ricorda i confratelli e le consorelle defunti, pregando il Padre che li facesse concittadini dei Santi con Maria nella Gerusalemme del cielo. Questa sia, oggi, anche la nostra preghiera
... Prego perché Dio accolga nel suo paradiso quest'anima tanto bella. Forse vi è già, perché avendo disposizioni così perfette si può andare diritti al cielo... Penso che nei momenti di grande tristezza si ha bisogno di guardare il cielo dove, invece di piangere, tutti sono nella gioia. Nostro Signore possiede un eletto di più, un nuovo sole rischiara della sua luce il firmamento eterno. Tutti sono nel rapimento dell'estasi divina. Si stupiscono che noi possiamo chiamare morte il principio della vita. Per loro, noi ci troviamo in un'angusta tomba, mentre la loro anima può passare da un'estremità all'altra di «plaghe eteree, di orizzonti infiniti»... Quando si guarda alla morte del giusto, non si può fare a meno d'invidiare la sua sorte. Per lui il tempo dell'esilio è finito, c'è solo Dio, nient'altro che Dio.
(S.Teresa di Gesù Bambino)
19 Novembre: San Raffaele Kalinowski
29 Novembre: Beatissimi Dionisio e Redento - martiri carmelitani
Pietro
Berthelot nacque a Honfleur (Calvados, Francia), il 12 dicembre del 1600 e
giovanissimo si diede alla navigazione, viaggiando per la Spagna, l'Inghilterra,
l'America. Honfleur, infatti, all’imboccatura del grande estuario della Senna,
da secoli era patria di ardimentosi marinai ed esperti navigatori. Non sorprende
dunque sapere che già a dodici anni Pietro Berthelot era imbarcato su un
vascello di gran cabotaggio e che, appena ventenne, veniva già considerato un
abile lupo di mare e un ottimo capitano di lungo corso.
In Portogallo, il giovane francese fece una
carriera più che brillante. Venne nominato piloto mayor, cioè ammiraglio,
e cartografo ufficiale.
Nel 1619 si
recò in India, dove, cosmografo e primo pilota dei re di Francia e di
Portogallo, si distinse per valore e ingegno, come provano ancora le sue Tabulae
maritimae delineate con somma perizia, conservate al British Museum (Ms. Sloan
197).
Finalmente, sui trentacinque anni, il piloto mayor venne
inviato nella colonia portoghese di Goa e qui,
dietro consiglio del direttore spirituale, il P. Filippo della S.ma Trinità,
il brillante ammiraglio e cartografo bussò alla porta di un convento
carmelitano, chiedendo umilmente di diventarvi frate. Fu accolto, e stava
compiendo il suo noviziato quando Goa venne bloccata dalle navi olandesi. Il
Viceré chiese aiuto al valoroso uomo di mare, che adesso aveva assunto il nome
di Dionigi della Natività. Il Carmelitano Scalzo lasciò il
convento per organizzare la difesa di Goa, riuscendo a respingere la flotta
nemica.
Rientrò nel convento carmelitano stringendo
ancora in pugno l'arma da lui usata in quel combattimento: e quell'arma era un
Crocifisso!
Poco
dopo, a Natale, il 25 dicembre 1636, pronunziò i voti. Due anni dopo, il 24
agosto 1638 venne ordinato sacerdote. Sia nel noviziato sia dopo la professione,
secondo la testimonianza dello stesso P. Filippo, fu esempio di virtù a tutti i
religiosi; venne elevato alla divina contemplazione e non raramente, durante
l'orazione, apparve circondato da splendori celesti. Ma il marinaio di Honfleur
diventato frate carmelitano non era destinato a restare a lungo sulla
terraferma. Nel 1638, il viceré Pietro da Silva inviò al sultano di Achén
(nell'isola di Sumatra, in Indonesia), l'ambasciatore Francesco de Souza de
Castro che volle con sé Dionigi come guida spirituale e come esperto del mare e
della lingua malese. Padre Dionigi riprese il mare, prendendo come compagno
Tommaso Rodriguez de Cuhna, nato verso il 1598 in Portogallo,
e che, nel 1615, aveva professato come frate "converso" nello stesso
Ordine, col nome di Redento della Croce. I due
lasciarono, con la delegazione, Goa, il 25 settembre 1638, e, dopo fortunosa
navigazione, il 25 ottobre giunsero a Achén. Accolti con segni di simulata
letizia, vennero invece fatti prigionieri. Tutti i componenti della missione
portoghese vennero presi come schiavi del Sultano.
Si tentò in tutti i modi di costringere i
due frati a rinnegare la propria fede. Dionigi col Fratello converso, più degli
altri fu tormentato e tentato perché lasciasse la fede cattolica e passasse alla
musulmana. In carcere si privava del necessario per carità verso gli altri che
sosteneva con la parola, l'aiuto e l'esempio. Visto inutile ogni mezzo, il
Sultano ordinò che i due frati fossero uccisi, insieme con una sessantina di
cattolici, risparmiando il solo Ambasciatore.
Dopo la condanna a morte, Redento della Croce morì fra i primi, trafitto con le frecce, poi finito con la lancia, mentre Dionigi sostenne il martirio per ultimo, per suo desiderio, al fine di poter confortare gli altri. L'esecuzione avvenne sulla spiaggia: Dionigi fu ucciso con un colpo di spada che ne divise il due il capo, il 29 novembre 1638. Furono entrambi beatificati da Leone XIII il 10 giugno 1900.