B. Elisabetta della Trinità
Biografia
Elisabetta Catez nacque a Camp d'Avor (presso Bourges, in Francia,) il 18 luglio 1880, in un campo militare dove il padre Giuseppe prestava servizio con il grado di capitano e fu battezzata quattro giorni dopo.
L’educazione ricevuta non potette non risentire di questa circostanza dando
un’impronta di fermezza a tutta la sua vita. Portava nelle vene un sangue
combattivo, pronto alla reazione. La sua prima infanzia, fino ai sette anni, fu
attraversata da scoppi di collera indomabili.
Elisabetta era una bambina piuttosto vivace, volitiva, esuberante,
estroversa, dal carattere forte e aggressivo. Aveva coscienza del suo
temperamento e fece della sua esistenza un continuo cammino di perfezionamento
della sua natura, di dominio sul suo carattere cercando, come diceva lei, di
“vincersi per amore”, attirata da Cristo: "quando si è contrastati,
si può essere ugualmente felici tenendo lo sguardo fisso al buon Dio… Anche
se all’inizio bisogna fare degli sforzi perché si sente tutto ribollire in sé,
lentamente, a forza di pazienza e con l’aiuto del buon Dio, si viene a capo di
tutto".
Nel
1887 la giovane famiglia si trasferì
prima ad Auxonne e poi a Digione in una modesta abitazione accanto alla quale si
poteva contemplare il monastero del Carmelo.
Quello stesso anno, quando Elisabetta aveva soli sette anni e sua sorella
Margherita appena quattro, il padre morì.
La
vita di Elisabetta, pian piano, si trasformò sotto la spinta del desiderio di
adoperarsi realmente per realizzare la missione che sentiva esserle stata
affidata nel giorno del Battesimo, così come le aveva misticamente suggerito il
Signore il giorno della sua Prima Comunione,
il 19 aprile 1891.
Quel giorno, infatti, la Priora
del Carmelo, al
parlatorio, le diede un santino di Santa Elisabetta e le
spiegò il significato in
ebraico del suo nome: "abitazione
di Dio". Dio abitava in lei
fin dal battesimo. Questa circostanza la colpì e con fervore cercò di
accostarsi all’Eucaristia più che potette (a quei tempi non si poteva
ricevere tanto spesso). Il 18 giugno dello stesso anno Elisabetta
ricevette il sacramento della Confermazione.
Senza
frequentare mai scuole vere e proprie, ebbe i primi rudimenti del sapere, dello
scrivere e delle scienze, da due istitutrici, con una infarinatura di
letteratura. Però fin da piccola frequentò il conservatorio di Digione, dove
trovò nella musica una forma di donazione e di preghiera, ottenne i primi premi
di esecuzione al pianoforte.
A quattordici anni, proprio durante il ringraziamento alla Comunione, sentì la
chiamata ad essere tutta di Gesù e gli offrì la sua verginità. "Stavo
per compiere quattordici anni quando una mattina nel ringraziamento della
Comunione mi sentii spinta irresistibilmente a scegliere Gesù per mio unico
Sposo, e senza indugio a Lui mi legai col voto di verginità. Non ci scambiammo
parole ma ci donammo l’un l’altra in silenzio, con un amore così forte, che
la risoluzione di non appartenere che a Lui divenne in me definitiva".
Interpellata da Cristo nell’intimità del suo essere, Elisabetta rispose come
Maria: un "sì" fermo, coscienzioso, definitivo a
"seppellirsi dietro le grate", per trovare il "suo
cielo sulla terra" nella "cara solitudine del Carmelo",
"sola con Dio solo". Una
decisione che si scontrò subito con l’opposizione altrettanto ferma della
madre la quale le impedì anche solo di visitare le monache. La madre,
rimasta vedova così giovane, aveva riposto nella figlia e nelle sue possibilità
musicali, la speranza di avere un aiuto nella vita; pertanto si dimostrò
contraria alla vocazione di Elisabetta proponendogli anzi il matrimonio con un
buon giovane.
In
apparenza le giornate di Elisabetta proseguirono secondo le indicazioni della
madre, ma interiormente furono trasformate in occasioni di incontro e di lode al
suo Re: "quando lo si ama…quando non si agisce che per lui, sempre
alla sua Santa presenza, sotto quello sguardo divino che penetra nel più
intimo… anche in mezzo al mondo si può ascoltarlo, nel silenzio di un cuore
che non vuole essere che suo!" Ella si accontentava di guardare il
Carmelo dal balcone della sua abitazione e di prepararsi al suo ingresso
sperimentando la sofferenza come riverbero di ogni autentico amore: "perché
farmi languire? Vorrei tanto appartenerti e vivere con te sola lontana da quelli
che amo sulla terra. Perché farmi languire? Perché limitare il mio desiderio?
Vedi i miei pianti, odi le mie grida: tu solo puoi asciugare le mie lacrime. Il
Signore mi chiama al Carmelo e la mia anima vola al suo richiamo".
Solo quando raggiunse i 19 anni la signora Catez cedette, ma ponendo la
condizione che sarebbe potuta entrare al Carmelo solo quando avesse compiuto i
21 anni; nel frattempo la portava in giro per tutta la Francia e,
secondo le usanze della società francese dell’epoca, la conduceva a
varie feste danzanti, a
vari incontri mondani con la speranza che Elisabetta cambiasse idea. Ella
divenne l’anima delle feste, ma, anche in mezzo al mondo, ascoltava il suo Gesù
nel silenzio del suo cuore. Prima di uscire per queste feste, s’inginocchiava
in casa, pregava, si offriva alla Madonna, poi con naturalezza e con un sorriso,
viveva queste occasioni di festa gioiosa: "Quando ero invitata a delle
feste, prima di uscire, andavo a chiudermi nella mia stanza e pregavo... sapevo
che avevo un temperamento ardente e dovevo essere molto vigile". "In
mezzo alle feste mondane, ero come attratta dal mio Maestro e dal pensiero della
Comunione dell’indomani a tal punto che divenivo insensibile, estranea a
quanto accadeva intorno a me". Anche quando eseguiva, tra
l’ammirazione del mondo che la circondava, dei difficili pezzi d’autore,
ella pensava a Gesù: "Quando non posso più pregare, suono, lo faccio
per il buon Dio". I viaggi e pellegrinaggi, invece di distrarla, la
unirono sempre più al suo Cristo. Era veramente "Nascosta con Cristo in
Dio". Avrebbe voluto essere un’ attrice perché anche lì ci fosse un
cuore che amasse Gesù.
"Tu
sai, Gesù, quanto desidero progredire per essere da Te più amata. Sì, mio Gesù,
sono gelosa del tuo amore e, per parte mia, ti amo tanto che in certi momenti mi
sembra di morire… O Gesù, mio amore, mia vita, mio Sposo diletto, la tua
croce, ti supplico, dammi la tua croce, voglio portarla insieme con te".
"Sì, lo sento, Gesù ho troppo amato le creature e mi sono data ad esse
ed ho troppo desiderato il loro amore, o piuttosto, non ho saputo amare
divinamente! Ma ora, lo sento bene, non tengo che a te, e soprattutto, o Diletto
del mio cuore, non voglio essere amata che da te".
Si preparò così alla vita monastica, insegnando il catechismo ai piccoli della
parrocchia, soccorrendo i poveri più abbandonati, in comunione stretta con la
Trinità e con la Madonna.
Prima della sua entrata al Carmelo, la presenza di
Gesù in sé si trasformò in presenza Trinitaria. Da allora danzò pensando
"ai suoi Tre". Chi la osservava non poteva non notare il suo
raccoglimento interiore. Una volta una zia, durante un ricevimento, l’accostò
esclamando: "Elisabetta, tu vedi Dio!", tanto brillavano i suoi occhi
attenti a qualcosa di trascendente. Finalmente il 2 agosto 1901 entrò nel
Carmelo di Digione e l’8 dicembre ne vestì l’abito, dopo un fervoroso anno
di noviziato. Scoprì progressivamente il mistero dei Tre e la grande vocazione
che era nel suo nome... Fu il Padre Vallée, Priore dei Domenicani di Digione,
ad istruirla sugli splendori del mistero trinitario e sulla bellezza del nome
che stava per prendere: "Elisabetta della Trinità". Ciò che colpì
maggiormente Elisabetta, fu che questa intimità con le Persone divine, vissuta
nella fede, anticipava la beatitudine finale. L’11 gennaio 1903 pronunciò i
voti, il 21 gennaio dello stesso anno compì la cerimonia della velazione
monastica vivendo la sua vita monacale immersa in adorazione continua della SS.
Trinità: "Ho trovato il mio cielo sulla terra, perché il cielo è Dio
e Dio è nella mia anima. Il giorno in cui l’ho compreso, tutto per me si è
illuminato".
Per
la Professione fece incidere sul retro del suo Crocifisso una frase di
Sant’Agnese: ‘Amo Cristum’. Così consolò la madre: "quand’eri
malata, svegliavi sempre me di notte e io correvo subito accanto a te, ebbene,
chiamami ancora, ti sentirò senz’altro, perché la mia anima è così vicina
alla tua".
Restò
attaccatissima alla mamma e alla sorella, con le quali, oltre alle consuete
visite permesse dalla dura disciplina della clausura, mantenne una costante
corrispondenza epistolare. In occasione del matrimonio della sorella le scrisse una lettera che dimostra
come Elisabetta, anche in clausura, seguisse la famiglia e vivesse i più
differenti eventi in una dimensione tutta spirituale:
"Mia
cara piccola Guite, alla vigilia del grande giorno, la tua Elisabetta t'invia
tutto il suo cuore, tutta la sua anima... Puoi immaginare con che fervore ho
pregato per i fidanzati e come chiedo al buon Dio di versare su di essi le sue
più dolci benedizioni. Egli vi ama, Guite, e la vostra unione è sicuramente
benedetta da lui!... Questa mattina ho fatto la S. Comunione per te e durante la
Messa delle otto la mia anima era stretta e tutta unita alle vostre..." (lettera
119 del 14 ottobre 1902).
Alla nascita della prima bimba, alla quale la sorella pose il nome di Elisabetta,
le scrisse:
"Mia cara Guite, abbiamo fatto una vera orazione stamani, durante la
ricreazione, alla tua piccola Sabeth. La nostra reverenda e ottima Madre era
felicissima di mostrarci la sua fotografia, e puoi immaginare se il cuore della
zia Elisabetta batteva forte!... Oh Guite mia, l'amo quest'angioletto, credo,
quanto la sua mammina, e non è poco; e poi, vedi, mi sento tutta penetrata di
riverenza di fronte a questo piccolo tempio della S. Trinità. La sua anima mi
appare come un cristallo che riflette il buon Dio e se le fossi vicina, mi
metterei in ginocchio per adorare colui che dimora in lei. Vuoi abbracciarla,
Guite, per la zia carmelitana e prendere la mia anima insieme con la tua per
raccoglierti accanto alla tua piccola Sabeth? Se fossi ancora tra voi, come
vorrei nutrirla, cullarla... che so io? Ma il buon Dio m'ha chiamata sulla
montagna perché sia il suo angelo, perché l'avvolga di preghiera. Di tutto il
resto faccio con gioia sacrificio a lui per la tua piccola: in fondo per il mio
cuore non ci sono più distanze e sono così vicina a voi. Lo senti, non è
vero? Vedo che il buon Dio esaudisce le preghiere delle sue carmelitane perché
la bambina e la mamma stanno così bene. La nostra reverenda Madre è stata
felicissima delle notizie che la mia buona mamma le ha inviato oggi. Sono certa
che S. Giuseppe compirà l'opera sua e tu potrai allattare la tua diletta
creatura: prego tanto secondo questa intenzione perché so quanto ti è cara!...
se tu sapessi come sono commossa al pensiero che tu sei mamma! Ti affido, te e
il tuo angelo, a Colui che è amore. L'adoro insieme con voi e vi stringo a me
sul suo cuore. La tua Elisabetta della Trinità" (lettera 163 di marzo
1904).
Quando
la sorella diede alla luce la seconda bambina scrisse:
"Mia cara Guite, abbiamo cantato l'Alleluia e così la reverenda Madre
mi permette di venirti a dire al più presto quanto mi unisca alle tue gioie
materne: sono così contenta di essere zia una seconda volta, e soprattutto di
una femminuccia, perché mi sembra, vedi, che l'unione esistente un tempo fra
noi due, si vada perpetuando nel tuo dolce focolare ed io mi compiaccio che
Elisabettina abbia una Odetta, come la zia Elisabetta aveva una Margherita. La
nostra cara Madre, che s'interessa tanto a te, era felicissima di darmi la
grande notizia e m'incarica di dirtelo... Durante questa grande settimana, ho
portato dappertutto la tua anima insieme con la mia, soprattutto durante la
notte del Giovedì Santo, e poiché non potevi andare tu da Lui, gli ho detto di
venire Lui da te. Nel silenzio dell'orazione ripetevo piano piano alla mia Guite
queste parole che il Padre Lacordaire rivolgeva a S. Maddalena allorché essa
cercava il Maestro nel mattino della Resurrezione: «Non lo domandate più a
nessuno sulla terra, a nessuno nel cielo, perché lui è la vostra anima e la
vostra anima è lui!». Oh sorellina, come benedice Dio il tuo piccolo nido,
come ti ama affidandoti queste due animucce «che egli ha scelte in Gesù, prima
della creazione, perché fossero sante e senza macchia al suo cospetto nella
carità» (S. Paolo). Sei tu che devi orientarle verso di Lui e serbarle tutte
sue.
T'incarico, Guite, di dire a Giorgio la ripercussione che ha nel mio cuore ogni
vostra gioia di cui rendo grazie al "Dio dal quale viene ogni dono
perfetto". Addio in Lui, mammina. Mi raccolgo con te accanto alle piccine:
ciascuna di loro ha, accanto a sé, il suo bell'angelo che vede la faccia di
Dio. Chiediamogli che ci rapisca in Lui e ci stabilisca nel suo amore. Ti
ricopro della mia tenerezza e della mia preghiera insieme con i tuoi due tesori.
Sono lieta di vedere Elisabettina. Dille che dia un bacio alla nonna per la zia.
Invio a Odetta un medaglia che ha toccato il miracoloso Gesù Bambino di Beaune.
È di rame, perché io sono una povera carmelitana. Potrai metterla alla sua
culla affinché Dio, che ama tutti i piccoli, la benedica e la protegga. Suor M.
E. della Trinità" (lettera 193 del 23 aprile; 1905). In una visita che
la sorella fece al monastero con le sue bambine Elisabetta la invitò a baciare
sul petto le sue creature, perché tempio di Dio, abitazione della Santissima
Trinità. Sentimenti di affetto umano e soprannaturale si intrecciarono nei suoi
rapporti con chiunque: 287 lettere ne danno un'ampia testimonianza.
Nel
1904, tre anni dopo il suo ingresso nel monastero di Digione, ella scrisse a
Francesca De Sourdon: "La vita del Carmelo è una comunione con Dio dal
mattino alla sera e dalla sera al mattino. Se non fosse lui a riempire le nostre
celle e i nostri chiostri come tutto sarebbe vuoto! Ma noi lo scorgiamo in tutto
perché lo portiamo in noi, e la nostra vita è un cielo anticipato".
Nel silenzio contemplativo, spoglia di attacchi terreni, la beata carmelitana
camminava verso la comunione d’amore con il Dio trino, mirava a seppellirsi
nel fondo della sua anima per perdersi "nella Trinità che ivi dimora"
e trasformarsi in essa. Un’anima "rapita dalla grande visione del
mistero dei misteri, da quella Trinità che fin d’ora è il nostro chiostro,
la nostra dimora, l’infinito nel quale possiamo muoverci attraverso tutte le
cose”.
Da
un suo scritto, datato venerdì 24 febbraio 1899, rileviamo la conoscenza che
lei aveva del male oscuro che l’aveva colpita,
il morbo di Addison, e la trasformazione della sofferenza in
sublimazione: “Poiché mi è quasi impossibile impormi altre sofferenze,
devo pure persuadermi che la sofferenza fisica e corporale non è che un mezzo,
prezioso del resto, per arrivare alla mortificazione interiore e al pieno
distacco da sé stessi. Aiutami Gesù, mia vita, mio amore, mio Sposo”.
Gli anni dal 1900 al 1905 trascorsero tra alti e bassi della malattia; il 21
novembre del 1904 si offrì “come preda” alla Trinità con la celebre
invocazione: “O mio Dio, Trinità che adoro”, uscita di getto dalla
sua anima. “Mio Gesù, crocifisso per amore, vorrei essere una sposa per il
tuo cuore, vorrei coprirti di gloria, vorrei amarti fino a morirne... O Fuoco
divorante, Spirito d'amore, sopravvieni in me, affinché si faccia nella mia
anima come una Incarnazione del Verbo, ed io gli sia una umanità aggiunta in
cui Egli rinnovi il suo mistero”. Il desiderio si realizzò pienamente. «L'umanità
aggiunta» consumava nel martirio e nell'oscurità il sacrificio di Gesù
stesso.
Nel
1905 si manifestarono i primi gravi sintomi della malattia: l’impossibilità
di nutrirsi, di bere, l’astenia, i forti dolori gastro-intestinali, le
cefalee, l’insonnia la relegarono in un letto in breve tempo, con un corpo
sempre più scheletrito, mentre aumentava il martirio della fame, della
sete, del sonno. Dentro
questa situazione Elisabetta incontrò lo sguardo ammaliante di Gesù che
l’avvolgeva al punto tale da annientarla fisicamente con la passione del Suo
amore: "per la natura, talvolta, questo è penoso e ti assicuro che se
io mi fermassi qui sentirei la mia vigliaccheria nella sofferenza… Ma questo
è lo sguardo umano… la fede mi dice che è l’amore che mi distrugge, che mi
consuma lentamente, e la mia gioia è immensa". Viveva il suo
martirio come una grazia e un dono, senza ripiegarsi su di sé. Con lo sguardo
ai suoi «Tre», dai quali aveva forza e coraggio, e col cuore spalancato sul
mondo e sulla Chiesa. Fu udita, dopo una crisi violenta, esclamare: “O
Amore, Amore! Consumami per la tua gloria. Che essa possa dilatarsi a goccia a
goccia per la tua Chiesa”.
Nel
1906 la situazione precipitò; le crisi si susseguivano opprimendola e
soffocandola, mentre le viscere davano la sensazione di essere dilaniate da
bestie feroci; non riusciva ad assumere né cibo né bevande, ciò nonostante
non smise mai di sorridere.
"Il mio Sposo mi ha fatto
capire che è lì la mia vocazione in terra d’esilio, in attesa di cantare il
Sanctus eterno nella Città dei santi".
Da allora Elisabetta si firmò addirittura in latino: "Laudem gloriae".
Questa espressione dell'inizio della Lettera di San Paolo agli Efesini
l'aveva colpita e affascinata. Vi aveva visto un suo «nome nuovo», quello
della pienezza. Un nome che comportava una missione di partecipazione al mistero
della passione e della morte di Colui che fu la «grande lode di gloria al Padre»,
il «Cristo crocifisso per amore». Così, a occhi chiusi, senza ragionare né
chiedersi perché, Suor Elisabetta della Trinità si gettò con fede e amore nel
«folto della croce». Accettò tutto con il sorriso e l’abbandono alla volontà
di Dio, diventando veramente “lode di gloria della Trinità”,
cioè un'anima "che adora sempre e, per così dire, è tutta trasformata
nella lode e nell'amore, nella passione della gloria del suo Dio".
Questo orientamento spirituale, fondato sulla convinzione di fede dell'inabitazione
divina, fu la grazia della sua vita che l'accompagnò negli ultimi anni, fortificandola e sostenendola nel periodo di martirio che la doveva "configurare
alla morte di Gesù, trasformarla in Lui crocifisso", per la gloria del
Padre e per la Chiesa. "Mi sembra che in Cielo la mia missione
sarà quella di attirare le anime, aiutandole ad uscire da se stesse per aderire
a Dio can un movimento spontaneo e pieno di amore, e di tenerle in quel grande
silenzio interno che permette a Dia d'imprimersi in loro, di trasformarle in se
stesso".
Proclamò
ciò che chiamava "il segreto della felicità": si trattava
dell’intimità con Dio. “Come vorrei dire a tutte le anime quali
sorgenti di forza, di pace e anche di felicità troverebbero se acconsentissero
a vivere in questa intimità. Esse però non sanno aspettare. Se Dio non si
comunica loro sensibilmente, abbandonano la sua santa presenza e, quando egli
arriva carico di doni, non trova nessuno. L'anima è al di fuori, nelle cose
esteriori, non abita più nel proprio intimo!”Ne era così convinta, che non
smetteva di ripetere: "Egli è l’Amore, e vuole che noi viviamo in
sua compagnia". "Vi lascio la mia fede nella
presenza di Dio, del Dio Tutto - Amore abitante nelle nostre
anime. Ve lo confido: è questa intimità con Lui al di dentro il più bel sole
irradiante la mia vita".
"Credere che un Essere che si chiama Amore abita in noi ad ogni
istante, di giorno e di notte, e che domanda solo di vivere in sua compagnia...
Ricevere come proveniente direttamente dal suo amore ogni gioia, come ogni
sofferenza... Questo contribuisce ad elevare l’animo al di sopra di ciò che
accade, e lo fa riposare nella pace, nell’abbandono dei bimbi di Dio".
In
quell’estate del 1906 obbedendo alla Priora, scrisse le sue meditazioni,
frutto di quei mesi terribili, nell’ ”Ultimo ritiro di Laudem gloriae” e
nel “Come trovare il cielo sulla terra”. La progressione del male ormai la
consumava e scrivendo alla madre, diceva: “Il Padre mi ha predestinata ad
essere conforme a "Suo Figlio crocifisso; il mio Sposo vuole che io gli sia
una umanità aggiunta nella quale Egli possa soffrire ancora per la gloria del
Padre e per aiutare la Chiesa. Questo pensiero mi fa tanto bene. Egli ha scelto
la tua figlia per associarla alla grande opera della Redenzione, l'ha segnata
col sigillo della Croce, e su di essa soffre come un prolungamento della
Passione”. Occorreva "Restare
immobili e silenziose presso il Divin Crocifisso ad ascoltarlo e penetrare tutti
i suoi segreti", identificarsi con Lui. "In realtà, nella
nostra cara solitudine, vivendo a contatto continuo con Dio, vediamo ogni cosa
nella sua luce, la sola vera, e questa luce ci mostra che il dolore, sotto
qualsiasi forma ci si presenti, è il più grande pegno che Dio possa dare alla
sua creatura": il dolore è un pegno d’amore. "Sono
tutta presa dalla Passione e quando si vede tutto ciò che egli ha sofferto nel
cuore, nell’anima, nel corpo, si sente come il bisogno di ricambiargli tutto
questo: sembra che si desidererebbe soffrire tutto quello ch’egli ha sofferto.
Non posso dire di amare la sofferenza in se stessa, ma l’amo perché mi rende
conforme a colui che è il mio Sposo e il mio amore. Oh vedi, questo mette
nell’anima una pace così dolce, una gioia così profonda, e si finisce per
riporre la propria felicità in tutto quanto ci contraria".
Parlava
comunque e stranamente di gioia; eppure al martirio del corpo si era aggiunto
quello dello spirito. Notte e tenebre. Oscurità e spasimi.
”Se nostro Signore mi offrisse la scelta tra la morte in un'estasi o
nell'abbandono del Calvario”, scriveva, “le mie preferenze sarebbero
per questa seconda forma, non per il merito, ma per glorificarlo e
rassomigliargli. Ho l'impressione che il mio corpo sia sospeso e che la mia
anima sia nelle tenebre; ma è l'Amore che opera questo. Io lo so, e nel mio
cuore ne giubilo. Se fossi morta nello stato nel quale la mia anima si trovava
in altri tempi, sarebbe stato troppo dolce. E' nella pura fede che me ne vado, e
lo preferisco. Così rassomiglio di più al mio Maestro e sono maggiormente
nella verità”. Se chi la vedeva
diceva di vedere in lei anche fisicamente l’immagine del Crocifisso, non
sospettava che nella sua anima, come in quella del Salvatore del Getsemani e del
Calvario, ci fosse l'agonia dell'abbandono, della solitudine, del vuoto. E, a un
tale grado, da spingerla, interiormente, anche verso la tentazione del suicidio,
superata nella fede dell’amore per Cristo.
Elisabetta era sorretta dalla splendida
intuizione della beata Angela da Foligno: "dove dunque abita Cristo, se non
nel dolore?". Per questo, quando intorno a lei era oscurità e tenebre,
guardava il cielo. E per fortificare le certezze della speranza, si appoggiava
alla Vergine Immacolata - "la
grande lode di gloria della Trinità". Aveva sempre tanto amato
la "Vergine dell'Incarnazione", l'umile creatura di fede che «vive
al di dentro», in contemplazione dei Tre e in ascolto contemplativo della Parola. Aveva guardato a lei nell'ora in cui era stata chiamata a salire il
Calvario, chiedendoLe di insegnarle a soffrire in silenzio, per amare, in
comunione can Cristo e con la Chiesa. Ora, mentre la «visione» sembrava
affacciarsi tra le ombre della notte, si sentì spinta a guardare a Maria «Ianua
Caeli». Ella doveva aiutarla a dire "sì" ai «Tre» fino alla fine.
Doveva introdurla nell'oceano dell'Amore: “Quando. avrò detto il mio «Consummatum
est» sarà lei, «Ianua Coeli», che m'introdurrà in cielo... Sarà la
Vergine, questo essere luminoso e puro della purezza di Dio, che mi prenderà
per mano e m'introdurrà in cielo”.
Il
giorno della Solennità dell’Ascensione del 1906, Elisabetta,
"l’abitazione di Dio", fu invasa dalla presenza della Trinità:
visse fino alla morte ospitando al suo interno le tre Persone divine in un
continuo ‘Consiglio d’amore’ tra loro.
Il morbo ebbe un decorso piuttosto lungo e doloroso, verso l’autunno sembrò
avviarsi verso la fine; giunto il 1° novembre parve giunta l’ultima ora
estrema e in quel giorno disse le sue ultime considerazioni: “Tutto passa!
Alla sera della vita resta solo l’amore. Bisogna fare tutto per amore…”,
poi per nove giorni si prostrò in uno stato precomatoso; in un ritornare
momentaneo della coscienza, fu udita mormorare, nel momento del suo ultimo
sospiro, in uno slancio verso i “Tre”: “vado alla Luce, all’Amore,
alla Vita”. La lode di gloria, configurata al Crocifisso per amore, finì
di consumarsi il mattino del 9 novembre 1906, a soli 26 anni, consolata dalla
grazia di aver vissuto gli ultimi mesi in comunione con i Tre.
Come
Santa Teresa del Bambino, sua contemporanea, anche Elisabetta della Trinità fu
una grande mistica. Umile, pura, ricca
di intelligenza aperta a tutte le bellezze della grazia, della natura e
dell'arte, alla scuola di S. Paolo, di S. Teresa d'Avila e di S. Giovanni della
Croce, imparò la lezione dell’amore ai "Tre" - secondo
l'espressione che le era cara - e insieme le leggi della corrispondenza a
tale amore. Silenzio e raccoglimento, contemplazione illuminata del mistero
Trinitario, docilità generosa alle minime ispirazioni, fedeltà incondizionata
alla volontà di Dio nella sua vocazione carmelitana... la formarono ad una vita
di dedizione che in breve raggiunse alta perfezione.
Pur
essendo vissuta nel monastero poco più di cinque anni e di cui tre in una
condizione di ammalata grave e irreversibile, quindi con pochi contatti con
l’esterno, ella dopo morta godé subito di una fama di santità, che fece
pensare ben presto alla sua glorificazione.
Per diversi motivi il primo processo informativo si ebbe negli anni 1931-41 a
Digione e il 25 ottobre 1961 venne introdotta la causa. Il 12 luglio 1982 furono
riconosciute le sue virtù vissute in modo eroico, dandole il titolo di
venerabile; infine Papa Giovanni Paolo II l’ha beatificata il 25 novembre
1984.
ELEVAZIONE
ALLA SANTISSIMA TRINITA’
"Mio
Dio, Trinità che adoro,
aiutami a dimenticarmi completamente, per fissarmi in Te,
immobile e tranquilla, come se la mia anima fosse già nell'eternità.
Nulla possa turbare la mia pace, né farmi uscire da Te, o mio Immutabile,
ma che ogni istante m'immerga sempre più nella profondità del tuo mistero.
Pacifica la mia anima, rendila tuo cielo, tua dimora prediletta e luogo del tuo
riposo.
Che non ti ci lasci mai solo, ma che io sia tutta là, completamente desta nella
mia fede,
tutta adorante, tutta consegnata alla tua azione creatrice.
O
mio Cristo amato, crocifisso per amore,
vorrei essere una sposa per il tuo Cuore.
vorrei coprirti di gloria, vorrei amarti... fino a morirne!
Ma sento la mia impotenza e ti chiedo di "rivestirmi di te",
di identificare la mia anima a tutti i movimenti della tua anima,
di sommergermi, di invadermi, di sostituirti a me,
affinché la mia vita non sia che un'irradiazione della tua Vita.
Vieni in me come Adoratore, come Riparatore e come Salvatore.
O Verbo eterno, Parola del mio Dio,
voglio passare la mia vita ad ascoltarti,
voglio rendermi perfettamente docile per imparare tutto da Te.
Poi, attraverso tutte le notti, tutti i vuoti, tutte le impotenze,
voglio fissare sempre Te e rimanere sotto la tua grande luce.
O mio Astro amato,
affascinami perché non possa più uscire dalla tua irradiazione.
O
Fuoco consumante, Spirito d'amore, "discendi in me",
affinché si faccia nella mia anima come una incarnazione del Verbo:
che io sia per Lui un'aggiunta di umanità
nella quale Egli rinnovi tutto il suo mistero.
E Tu, o Padre, chinati sulla tua povera piccola creatura,
"coprila della tua ombra",
non vedere in lei che il "Diletto nel quale hai posto
tutte le tue compiacenze".
O
miei Tre, mio Tutto, mia Beatitudine,
Solitudine infinita, Immensità in cui mi perdo,
mi consegno a voi come una preda.
Seppellitevi in me perché io mi seppellisca in Voi,
in attesa di venire a contemplare
nella vostra luce l'abisso delle vostre grandezze".