AGOSTO
Beata Maria Sagrario Beato Angelo Agostino Mazzinghi
Beata Mirjam di Gesù Crocifisso Trasverberazione del cuore della Santa Madre Teresa
Beati Gian Battista, Michele Luigi e Giacomo - Martiri di Rochefort
7 Agosto: Sant'Alberto da Trapani patrono del Commissariato
9 Agosto: Santa Teresa Benedetta della Croce
patrona d'Europa
16 Agosto: Beata Maria Sagrario
Elvira Moragas Cantarero nacque l'8
gennaio 1881 da una famiglia profondamente cristiana a San Martino di Tillo
presso Toledo. A quattro anni con la famiglia si trasferì a Madrid dove il
padre continuò a svolgere la sua attività di farmacista fino al 1909, anno in
cui morì; la sorella maggiore di Elvira, Sagrario, morì ad appena undici anni,
nel 1890, fra la costernazione della famiglia. Elvira ricevette un’educazione e
formazione umanistica dal padre che poi proseguì e perfezionò nella scuola delle
Mercedarie di San Fernando a Madrid.
Frequentò gli studi superiori con ottimi risultati nell’Istituto Cardenal
Cisneros e poi si iscrisse alla Facoltà di Farmacia dell’Università madrilena.
Unica donna fra 80-85 studenti, dal 1900 al 1905 frequentò con profitto gli
studi universitari laureandosi a ventiquattro anni con ottimi voti.
Ottenuta la laurea prese ad aiutare suo padre nella farmacia ed alla sua morte
iniziò a gestirla personalmente, divenendo quasi sicuramente la seconda donna
spagnola titolare di un’attività farmaceutica. Due anni dopo perse anche la
mamma e restò sola con il fratello Riccardo che restò sempre unito a sua
sorella.
Ebbe almeno due pretendenti, cosa naturale per una ragazza di qualità così fuori
del comune. Il primo fu congedato presto per la sua giovane età. L'altro sentiva
per Elvira molta attrazione e la frequentava piuttosto assiduamente.
Si mostrava corretto, educato e rispettoso. Però Dio vegliava su questa donna di
elezione. Un giorno ella si accorse della cattiva condotta del giovane e delle
sue idee antireligiose. Immediatamente ruppe con lui, senza far caso a tutte le
sue minacce. Rinunciò per sempre alle idee dell'amore umano e si volse all'Amore
senza limiti.
Elvira che resse la farmacia con delicatezza e amabilità, stabilì che il sabato
fosse il giorno dedicato all’elemosina ai poveri proprio lì in farmacia e questa
consuetudine durò per molto tempo anche dopo la guerra; ormai era un
appuntamento cui i poveri e bisognosi conoscevano bene e vi si recavano
numerosi.
Si diede al lavoro con diligenza. Usava
tutta la sua scienza e la sua competenza professionale per lenire la sofferenza
dei malati. Per tutti aveva la parola giusta, la medicina desiderata, la
comprensione per un dolore.
Frequentava la parrocchia di San Marco e aiutava nella catechesi. Conobbe don
Lope Ballesteros, cui affidò la direzione della sua anima: Dio la chiamava
insistentemente. Questo sacerdote aveva una sorella carmelitana scalza e questo
diede l'occasione per conoscere il Convento di Santa Ana y San José dove
viveva.
Le domeniche Elvira se ne andava nei
sobborghi, dove si lasciava afferrare dalla sua carità. Portava medicine e
affetto a tanti bisognosi. Quando a volte non aveva tempo di comprarle, portava
loro perfino le coperte del suo letto. Tutto le sembrava poco per dare gioia a
tanti con i quali la vita si mostrava così ingrata.
Quando il Signore chiamò a sé il suo confessore, Elvira si rivolse al grande
"apostolo di Madrid", P. Giuseppe Maria Rubio Peralta S.J., beatificato il 6
ottobre 1985 da Giovanni Paolo II. Un giorno, dopo la consueta lunga attesa per
la coda di penitenti che si formavano al suo confessionale, ascoltò queste
parole: "Dio la vuole per Sé". Già decisa a questo, non ebbe alcun
dubbio: se ne sarebbe andata appena suo fratello avesse finito gli studi.
Mancava ancora poco.
Nell'attesa, si sottoponeva a un regime di vita anche più austero di quello che
già osservava. Passava lunghe ore in preghiera e praticava severe penitenze.
Mentre per suo fratello preparava i cibi più delicati ed appetitosi, ne
preparava per sé di più semplici e di qualità inferiore. Spesso si privava del
dessert e cercava sempre il modo di soddisfare il bisogno di rinuncia e di
dedizione.
Arrivò il giorno tanto atteso: Riccardo poté farsi carico della farmacia e così
Elvira si sentì libera. Poteva finalmente compiere i suoi desideri. I due
fratelli, sempre tanto uniti, dovevano separarsi. "Piangemmo molto tutti e
due", ricorderà Riccardo. Ma il Carmelo aspettava Elvira ed ella non si fece
attendere: era il 21 dicembre 1915. Elvira aveva 34 anni e si addentrò nella
vita carmelitana cambiando il nome in Maria Sagrario di S. Luigi Gonzaga. La
Madonna del Sagrario nella Cattedrale di Toledo aveva dato un'impronta mariana a
tutta la famiglia.
In convento continuò la sua opera di beneficenza di farmacista con l’aiuto del
fratello Riccardo, divenuto titolare della farmacia; condusse la sua vita di
carmelitana scalza con grande impegno e con particolare gioia; per il suo
spirito di orazione e il suo amore all’ Eucaristia incarnò perfettamente
l'ideale contemplativo ed ecclesiale del Carmelo Teresiano.
Sempre di buon umore, visse trasmettendo allegria nel servizio a Dio ed agli
altri.
Alla sua elevata cultura si dovevano aggiungere i grandi valori morali che fin
dalla infanzia aveva cominciato a vivere. Ed ecco che ora abbandonava tutti i
beni materiali per vivere volontariamente nella povertà, nella privazione e
nella rinuncia a tante cose. La sua vita spirituale si fondava già su ottime
fondamenta. A lei piaceva tutto: la preghiera, il silenzio, l'austerità
penitenziale, la recita in coro, la gioia. Tutto le dava un piacere immenso.
La sua Maestra disse di lei: "Aveva un carattere forte ed energico, capace di
portare a termine i più grandi ideali di santità". La notte di Natale del
1916 fece la sua prima professione; nell’Epifania del 1920 emise la professione
solenne "fino alla morte".
Nella vita religiosa si mostrava sempre affabile e semplice. Se le domandavano
qualcosa, insegnava tutto quel che sapeva, con grande misura e spontaneità.
Quando le dicevano qualche cosa a sua lode, cercava con destrezza di cambiare
argomento.
Mai cercava di imporre il suo criterio: cedeva o conservava il silenzio. Un
giorno una sua compagna le rimproverava la sua condotta e lei non rispondeva
niente. Una religiosa che era presente alla scena non si poté trattenere e le
disse: "Non sente ciò che sta dicendo? Perché non dà una spiegazione?".
Al che Suor Sagrario rispose: "Ma ha ogni ragione e sta dicendo la verità".
Nel gennaio 1927, alla morte della Priora, la Comunità la elesse priora. Era la
più giovane delle capitolari. Lei che aveva sempre cercato di passare nascosta,
ignorata, senza essere notata, abbracciò la croce e si convertì in Madre
premurosa verso tutte le sue figlie. Vedeva che Dio realizza la sua storia della
salvezza attraverso mediazioni umane, che ci manifestano la sua Volontà.
Scaduta da priora le fu dato l'ufficio di "rotara", cioè di colei che alla porta
avrebbe dovuto passare parole e cose fuori della clausura. Ufficio che esige
molta prudenza, delicatezza e spirito di sacrificio. E così Suor Sagrario fu
l'incaricata di accogliere, ricevere, salutare tutte le persone che si
avvicinavano alla "ruota" a qualsiasi titolo, tanto i familiari delle religiose
che venivano a visitarle, quanto i vari fornitori del Monastero.
Ella traboccava di carità nel suo nuovo ufficio, consolando cuori, cercando
rimedio ai bisognosi, senza altra mira e speranza di ricompensa che la promessa
dal Signore nel Vangelo.
Alla porta arrivavano notizie ogni volta più preoccupanti sulla situazione della
Spagna. Lei le riceveva serena, fiduciosa, in paziente e lungo ascolto delle
persone per quanto glielo permettevano i suoi doveri e il tempo della preghiera.
Poi davanti al Tabernacolo, si abbandonava all'Unico che poteva risolvere tutto.
Avrà pensato che forse presto si sarebbero avverati i suoi desideri? È facile,
poiché una religiosa ricorda che, verso questo tempo, parlando con lei, le
manifestava la santa impazienza di versare il suo sangue per amore a Cristo.
Poi fu di nuovo eletta Priora ed ancora una volta obbedì, si donò, si dedicò a
servire. Era la sposa di un Dio Crocifisso e voleva vivere la stessa sua sorte.
Presto consumerà il martirio, che molto prima aveva immaginato nel suo cuore.
Dio senz'altro stava preparando la sua vittima. Infatti quegli ultimi giorni
dovettero essere per lei di grande purificazione. Si notava in lei un non so che
di alto e santo. Viveva distaccata da sé, a disposizione di tutte. Con frequenza
ripeteva: "L'unica cosa che voglio è fare tutte contente, che tutte siano
felici". Era simile ad una madre che, prossima a partire, dispensa affetto
ai suoi bambini.
Il 18 luglio 1936 scoppiò la Guerra Civile spagnola, che insanguinò la Nazione
dal 1936 al 1939, mietendo solo fra i religiosi ben 7300 vittime.
La Beata riunì la comunità ed invitò a tornare in famiglia, perché tutto era
assai pericoloso. Nessuna però volle uscire, vedendo che la Madre non era
disposta ad abbandonare il Monastero.
Le religiose che vissero con lei raccontarono: "Lo stesso giorno 18 luglio
furono prese a sassate le finestre della Chiesa e del convento, e le religiose
si resero ben conto dell'imminente pericolo. Quello stesso giorno la Comunità
cominciò la sua dolorosa odissea. Il pomeriggio, dopo i vespri, mentre tutte
erano riunite, la Nostra Madre ci disse: 'Va tutto molto male. Si sono ribellati
i militari. Se va avanti così, non so che sarà di noi. Vi supplico e vi
consiglio che chi di voi desidera andarsene in famiglia, lo dica con ogni
libertà...'
I giorni 18 e 19 luglio godemmo di
una relativa calma nel nostro convento, sebbene provassimo una grande sofferenza
morale. Pareva che lo spirito presentisse la grande strage che stava per
succedere nella nostra Patria.
Di continuo vegliavamo il Santissimo, collocato in un Tabernacolo nella parte
interna del luogo destinato alla comunione delle religiose. I secolari,
allarmati al vedere la nostra comunità in simile congiuntura, non cessavano di
spingerci con tutti i mezzi che venivano loro in mente perchè uscissimo. Ma il
coraggio della Madre sosteneva le figlie, e nessuna chiese di uscire. Però alla
fine fu necessario cedere alle suppliche di alcune famiglie e tre gruppi di
religiose si sentirono in obbligo di separarsi dalle loro sorelle, con grande
pena e con santa invidia per non poter partecipare alle angustie e condividere
la sorte di tutte. Rimanemmo nove religiose e in più la nostra Priora".
"Durante tutto il giorno 20 luglio il nostro convento fu crivellato dalle
pallottole di fucile. Celebravamo la festa del nostro Santo Padre Elia. Festa
memorabile! Alle cinque del pomeriggio, la Comunità ridotta, pur prevedendo
quello che poteva accadere, se ne andò in coro a recitare Mattutino. Passati
forse quindici minuti, la suora che in cucina preparava la cena udì forti colpi
e grida alla porta principale e alla ruota. La folla si accingeva ad assaltare
il convento. Avrebbero voluto bruciarlo. Ma i vicini si opposero, temendo che il
fuoco si propagasse alle loro case. Perciò decisero di sfondare la porta e la
ruota, per entrare in clausura.
Intanto la suora corse in coro ad avvisare le altre di ciò che stava accadendo.
Furono momenti di grande paura e confusione. La Nostra Madre e altre sorelle
andarono nell'eremo dell'orto, mentre le rimanenti salirono a consumare le ostie
del Santissimo Sacramento. In pochi minuti, il nostro chiostro fu invaso da ogni
tipo di gente. Alcuni con il fucile, altri con i bastoni corsero per tutto il
convento, ruppero vetri, calpestarono quadri con orribili bestemmie e
fracassarono a terra quante immagini ed oggetti di culto trovavano. Le donne
badavano a vuotare il convento buttando la roba in mezzo alla strada, dove
fecero uno spaventoso falò con tutto ciò che tiravano fuori. Il chiasso di tutta
la gente armata o meno, le corse pazzesche insieme con il fracasso che alzavano
nel fare a pezzi immagini, tavoli, ecc., dava l'impressione che nel nostro
convento fosse entrato l'inferno.
Noi per alcuni momenti riparammo nell' eremo ma, udendo suonare tutte le campane
e campanelle e non sapendo che cosa sarebbe stato delle sorelle che mancavano
nel nostro gruppo, decidemmo di tornare in convento. La Nostra Madre fu la prima
a presentarsi agli aggressori e solamente quando l'assicurarono che non ci
avrebbero fatto nessun male, ci chiamò e ci accingemmo ad uscire. Certune di
noi, protette e rasserenate da alcuni di loro che mostravano migliori
sentimenti, potemmo ritirarci per indossare vestiti secolari. Altre uscirono con
l'abito, tra gli insulti e lo schiamazzo della folla che in gran numero occupava
le strade e contemplava lo spettacolo. Lì ci misero in fila vicino al muro. La
Madre, pensando che fosse per ammazzarci, disse: ' Preparatevi, ché ci stanno
per uccidere '. E aggiunse: 'Viva Cristo Re!'.
In quel momento arrivò un taxi per portarci via. La Nostra Madre si rifiutò di
entrare perché temeva di esporre le sue figlie al pericolo di qualcosa di
peggio; perciò disse che era preferibile che ci ammazzassero lì. Non ce lo
accordarono...
Alla fine la pattuglia diede l'ordine di partenza e l'automobile prese ad andare
senza che sapessimo dove ci portava. Ma avevamo il nostro cuore gonfio di gioia
vedendoci perseguitate per il fatto che professavamo il nostro titolo di Spose
di Gesù. Cominciammo a pregare in coro: la nostra Madre intonò con tutto il
fervore il 'Te Deum', la 'Salve' e alcuni salmi a voce alta, senza timore per le
guardie che ci sorvegliavano e, attraverso i finestrini, ci guardavano con
disprezzo e ci irridevano. Arrivammo alla Centrale della Polizia: ci fecero
scendere dall'automobile, ci condussero sotto una scala e, andandosene, ci
lasciarono lì, senza render conto o dar ordini a nessuno. Vedevamo la Nostra
Madre tranquilla e forte con la sua pace abituale. Ci diceva: '... Se io vi
avessi obbligate ad uscire dal convento... Sono io la colpevole di tutto!'. Una
delle nostre sorelle le disse: ' No, Madre, la colpa l'abbiamo noi, che abbiamo
voluto restare nel nostro convento, seguendo la nostra vocazione fino all'ultimo
momento, fin quando non ci hanno cacciate '. Allora la Madre disse in tono
riconoscente e soddisfatto: 'Bene!' e non tornò più su questo argomento.
Alla Centrale di Polizia c'era grande movimento. Era piena di guardie armate e,
dopo quanto era successo con i franchisti alla caserma della Montagna, si vedeva
un continuo salire e scendere di gente che verificava negli uffici il domicilio
dei rispettivi familiari. Noi continuammo a stare sotto la scala, senza che
nessuno si preoccupasse della nostra sorte, finché un impiegato pieno di
meraviglia ci domandò il motivo di così lunga attesa. Gli raccontammo la nostra
storia e con grande cura riferì ad un capoccia ciò ch'era successo e quello
diede ordine di portarci in automobile alle nostre case.
Tutte ci abbracciammo e ci demmo l'arrivederci finché il Signore avesse voluto.
Incominciammo allora a sentire in cuore la tristezza. Come sarebbe finito tutto?
Quando saremmo tornate a vederci nel nostro convento? La Nostra Madre ci
incoraggiò con parole affettuose e ci separammo.
...Madre Maria Sagrario finì con il rifugiarsi con una suora nella casa dei
genitori di questa, dove rimase fino all'imprigionamento, occupandosi delle sue
religiose e fortificandole con i suoi affettuosi consigli. Suo fratello don
Riccardo Moragas la visitò varie volte, manifestandole il desiderio che andasse
con lui a Pinto, dove viveva con i suoi. La Madre non acconsentì a quanto le
proponeva il fratello, perchè, diceva: ' devo vegliare su tutte le mie sorelle
'.
"Riservava speciale attenzione per quelle sue figlie che, appartenendo a
famiglie più umili e bisognose, necessitavano di aiuto. Ad una di loro,
mandandole un poco di quel denaro che aveva potuto prendere partendo dal
convento, le diceva in una lettera: 'Quanto stiamo soffrendo tutte! Non avrei
mai creduto d'arrivare a tanto. Benedetto sia Dio che ci dà queste sofferenze
per offrirgliele come amore a Lui...."
Il 14 agosto come tutti gli altri giorni la Madre Sagrario fece l'orazione e
tutte le preghiere quasi si trovasse in convento, e alle quattro circa del
pomeriggio, dopo la Via Crucis, cominciò a recitare l'Ufficio dell'Assunzione di
Maria. Ma dovette interromperlo perché a quell'ora si presentarono nella casa
dove stava dei miliziani che domandarono di suor Sagrario, esibendo dei dati
precisi come gente ben informata sulla preda da prendere. Quando la Madre venne
a sapere ciò che succedeva, si presentò subito, dicendo che era lei. La
arrestarono sul momento e la condussero, insieme alla religiosa con cui viveva,
nella prigione
repubblicana di via Marqués del Riscal, famosa per le crudeltà che si facevano.
Lì si trovarono con altre tre religiose della Comunità.
Appena arrivata, la isolarono così che le sue figlie non poterono dirle nulla.
Ma poterono osservare il suo atteggiamento di persona raccolta e assorta nelle
varie occasioni in cui passando da una stanza all'altra quando erano chiamate
per l'interrogatorio, la incrociavano mentre era sola, con il rosario in mano e
una grandissima pace sul volto, senza che badasse a niente o si preoccupasse di
quanto succedeva intorno, come chi già non appartiene a questo mondo.
Non sappiamo quello che soffrì né i modi brutali che dovette sopportare durante
le poche ore della sua prigionia. A notte già inoltrata, una nostra religiosa
vide che la conducevano in una stanza vicina alla sua, e vide anche che la
volevano obbligare a scrivere su un foglio. La Madre si rifiutava. Alla fine, si
mise in ginocchio e, dopo alcuni istanti di preghiera, si alzò decisa e si mise
a scrivere un attimo. Che avrà scritto? Propendiamo per una sua professione di
fede, forse l’espressione dei
martiri di quell’epoca insanguinata: “Viva Cristo Re”, poiché quando finì di scrivere la
portarono via tra insulti e bestemmie".
Durante la notte fu trasportata nella
Padrera de San Isidro e nelle prime ore del mattino venne fucilata. Era il 15
agosto del 1936, giorno dell’Assunzione di Maria; aveva 45 anni. Non si sa cosa
disse in quei momenti, comunque tanto attesi, ma vi sono due foto scattate dopo
la sua morte, dove è visibile la serenità del viso, senza smorfie di dolore, con
gli occhi aperti pieni di una santa rassegnazione.
La sua morte, considerata un martirio, fece avviare i processi per la sua
beatificazione dall’arcivescovo di Madrid nel 1962, che si sono conclusi con la
solenne proclamazione da parte di Papa Giovanni Paolo II in Piazza S. Pietro a
Roma il 10 maggio 1998.
Nell’arazzo per la cerimonia Madre Sagrario è raffigurata con la palma del
martirio, vicino ai suoi piedi vi sono alcuni vasi e strumenti da farmacista,
sul fondo il convento carmelitano e l’eremo di S. Isidro dove fu fucilata.
In lei i farmacisti di Spagna e del mondo hanno trovato una celeste patrona, che
ha saputo stare con competenza e bontà nel laboratorio e nella farmacia, ma con
dignità ed eroismo anche davanti alla morte..
17 Agosto: Beato Angelo Agostino Mazzinghi
Il B. Angelo Agostino, più comunemente conosciuto in Italia sotto il nome di Beato Angiolino, che era il suo nome di battesimo, nacque in Firenze, o nei pressi, in data sconosciuta, ma certamente prima del 1386. Ricevuto nell'Ordine nel 1413, dopo la sua professione, si ritirò in un monastero appartato per prepararsi al sacerdozio. Ordinato sacerdote passò per le diverse cariche dell’Ordine, e fu sempre stimato come modello delle più eccellenti virtù, proprie di un vero figlio del Carmelo. Fu il primo figlio della riforma di S. Maria delle Selve. Ivi negli anni 1419-30 e 1437 e poi a Firenze negli anni 1435-37 esercitò l'ufficio del priore. Lettore in teologia, si distinse nella predicazione della parola di Dio. La sua tenera devozione per la divina Eucaristia e l’augusta Madre, il suo spirito d’osservanza, di penitenza e di umiltà, toccavano assai sensibilmente i cuori e ravvivavano lo zelo della disciplina in tutti i conventi in cui abitò.
Si distinse grandemente sui pulpiti d’Italia, ed un’antica pittura ce lo rappresenta con una ghirlanda di rose e di gigli che esce dalla sua bocca ed allaccia l’uditorio.
Alla sua morte furono veduti gli Angeli, con i quali ebbe tanta somiglianza di nome e di fatti, comparire visibilmente per trasportare al cielo la santa sua anima.
Morì a Firenze il 16 agosto 1438; fu beatificato da Clemente XIII.
Riposa in Firenze nella chiesa del Carmine.
18 Agosto: Beati Gian Battista, Michele Luigi e Giacomo -
Martiri di Rochefort
Nella rada di Rochefort, durante la
Rivoluzione Francese, negli anni 1794-1795, morirono diversi sacerdoti e
religiosi, provenienti da 14 diocesi francesi e da vari Ordini religiosi. Sono
conosciuti come “Martiri dei pontoni di Rochefort”, perché fu in quelle
imbarcazioni che furono tenuti prigionieri. Si chiama pontone una vecchia nave,
quando viene utilizzata come deposito, come ospedale o come prigione.
C'erano due di queste navi che servivano da prigione: la “Deux-Associés” e la
"Washinton" ed erano ancorate a Rochefort, là dove il fiume Charente si getta in
mare, nella regione de La Rochelle (Francia).
C'erano in tutto 827 prigionieri, di cui 542 morirono durante i mesi di
prigionia su queste navi, tra l'11 aprile 1794 ed il 7 febbraio 1795. Tutti
patirono sofferenze e vessazioni terribili a causa della loro fede e morirono in
seguito ai maltrattamenti subiti. I 285 sopravvissuti furono liberati il 12
febbraio 1795 e poterono tornare ai loro paesi d'origine. Alcuni di essi
lasciarono testimonianze scritte di esempi eroici da parte dei loro compagni di
martirio, esempi che hanno permesso la preparazione del processo per la loro
beatificazione e canonizzazione.
Tra i 64 martiri, beatificati dal Santo Padre Giovanni Paolo II in Piazza San
Pietro, a Roma, il 1° ottobre 1995, vi furono tre Sacerdoti Carmelitani Scalzi:
l) P. GIOVANNI BATTISTA DUVERNEUIL, nato, secondo alcuni, a Limoges nel 1737 o, secondo altri, a Saint-Vrieix il 7 gennaio 1759; in religione si chiamava P. Leonardo, ma ignoriamo il suo cognome religioso;
2) P. MICHELE LUIGI BRULARD, nato a Chartres l' 11 giugno 1758; non ci è noto il suo nome religioso;
3) P. GIACOMO GAGNOT, in religione P. Uberto di S. Claudio, nato a Frolois il 9 febbraio 1753.
Per la loro fedeltà a Dio, alla Chiesa e al Papa, rifiutarono il giuramento della Costituzione civile del Clero imposto dall' Assemblea Costituente della Rivoluzione Francese. Perseguitati e condannati, furono concentrati nella baia di Rochefort, sul litorale atlantico della Charente-Maritime, in attesa di essere deportati ai lavori forzati nella Guyana francese o in Africa. Ma tale deportazione non avvenne mai e rimasero, ammassati come animali, sul bastimento negriero Deux-Associés, ancorato in rada, tra le isole Aix e Madame. Su questa vecchia nave o "ponton", nel corso dell'anno 1794, morirono i primi due Religiosi Carmelitani, precisamente il 10 luglio il P. GIOVANNI BATTISTA, e il 25 luglio il P. MICHELE LUIGI. Essi furono sepolti nell'isola di Aix. Verso la fine di agosto del 1794, essendosi oltremodo diffusa una feroce pestilenza nel bastimento Deux-Associés, i prigionieri ancora in vita vennero fatti sbarcare nell'isola Madame, dove furono distribuiti in tende e sempre in condizioni terrificanti.
Il P. GIACOMO vi morì il 10 settembre e in questa stessa isola fu sepolto.
Questi tre Sacerdoti Carmelitani Scalzi, dopo aver sopportato con indicibile pazienza ogni genere di oltraggi, minacce, ingiurie, privazioni e crudeltà, oltre ai rigori del freddo, del caldo, della pioggia, della fame, delle malattie e di ogni tipo di infezioni, diedero con lo morte, insieme ai loro Compagni di martirio, la più grande testimonianza cristiana di fede e di amore incondizionato a Cristo, di attaccamento e di fedeltà alla Chiesa, di compassione verso tutti, di perdono ai propri persecutori.
Dai «Propositi» redatti dai chierici rinchiusi nella nave della prigionia "Les deux Associés":
Non dovranno preoccuparsi con inutili inquietudini per la rimessa in
libertà; ma dovranno approfittare del tempo di detenzione, meditando sugli anni
passati, facendo santi propositi per il futuro, al fine, di incontrare, nella
schiavitù dei corpi, la libertà delle loro anime.
Nell' eventualità che Dio dovesse permettere di riottenere, totalmente o
parzialmente la libertà, per la quale sospira la natura, eviteranno di
abbandonarsi al giubilo smisurato, quando giungesse la notizia. Conservando un
animo sereno, mostreranno di avere patito, senza mormorare, la croce loro
imposta e che erano disposti a sopportarla più a lungo, con coraggio e come veri
cristiani che non si lasciano abbattere dalle difficoltà.
Nel caso che venissero loro restituiti gli effetti personali, non avrebbero
mostrato alcuna avidità nel reclamarli, ma avrebbero manifestato con modestia e
nuda verità quanto avrebbero potuto richiedere, avrebbero ricevuto, senza
lamentele, quanto avrebbero loro dato; tutto ciò, abituati, come dovrebbe
essere, nel disprezzare i beni della terra e nell'accontentarsi del poco,
sull'esempio degli apostoli.
Non soddisferanno la curiosità di quanti potrebbero incontrare sulla propria
strada, non risponderanno alle vuote domande sul loro passato, faranno
intravedere che hanno sopportato pazientemente i propri patimenti, senza entrare
in particolari e senza mostrare nessun risentimento verso coloro che ne sono
stati gli autori e gli strumenti.
Conserveranno il silenzio più severo e assoluto circa i difetti dei fratelli
e le debolezze in cui potrebbero essere caduti nella loro dolorosa situazione,
circa il loro stato di salute e sulla durata della loro pena, conserveranno la
stessa carità verso tutti quelli la cui opinione religiosa sia diversa dalla
loro; eviteranno ogni sentimento di durezza o animosità, limitandosi al
compatimento interiore e sforzandosi di condurli sul cammino della verità con la
loro dolcezza e moderazione.
Non mostreranno nessuna afflizione per la perdita dei loro beni, nessuna
fretta nel recuperarli, nessun risentimento contro coloro che ne possiedono.
25 Agosto: Beata Mirjam di Gesù Crocifisso
26 Agosto: Trasverberazione del cuore della Santa Madre Teresa
...Non siamo noi a porre la legna, ma sembra che, acceso già il fuoco, subito vi siamo gettati dentro per bruciare. Non è l'anima a inasprire il dolore della piaga, per l'assenza del Signore, ma è una saetta che le si conficca a volte nelle viscere e nel cuore così al vivo da lasciarla incapace di capire cosa abbia o cosa voglia.
Solo intende di volere Dio e che la saetta pare abbia la tempera di un'erba che l'induce ad odiare se stessa per amore del Signore, in servizio del quale rinunzierebbe volentieri alla vita.
Non si può magnificare né dire il modo con cui Dio ferisce l'anima e l'enorme sofferenza che produce, perché la trae fuori di sé, ma questa pena è così piacevole che non c'è nessun godimento nella vita terrena capace di offrire maggior piacere. L'anima vorrebbe sempre, come ho detto, giungere a morire di un tal male.
...In questa visione piacque al Signore che io vedessi un angelo così: non era grande, ma piccolo e molto bello, con il volto così acceso da sembrare uno degli angeli molto elevati in gerarchia che pare brucino tutti in ardore divino: credo che siano quelli chiamati cherubini, perché i nomi non me li dicono, ma ben vedo che nel cielo c'è tanta differenza tra angeli e angeli, e tra l'uno e l'altro di essi, che non saprei come esprimermi. Gli vedevo nelle mani un lungo dardo d'oro, che sulla punta di ferro mi sembrava avesse un po' di fuoco. Pareva che me lo configgesse a più riprese nel cuore, così profondamente che mi giungeva fino alle viscere, e quando lo estraeva sembrava portarselo via, lasciandomi tutta infiammata di grande amore di Dio. Il dolore della ferita era così vivo che mi faceva emettere quei gemiti di cui ho parlato, ma era così grande la dolcezza che mi infondeva questo enorme dolore, che non c'era da desiderarne la fine, né l'anima poteva appagarsi d'altro che di Dio. Non è un dolore fisico, ma spirituale, anche se il corpo non tralascia di parteciparvi un po', anzi molto. È un idillio così soave quello che si svolge tra l'anima e Dio, che supplico la divina bontà di farlo provare a chi pensasse che mento.
(Santa Teresa D'Avila)
Questa sublime specie di ferimento amoroso « viene operato nell'anima da un contatto immediato della Divinità, senza far ricorso ad alcuna forma o figura, né intellettuale né immaginaria ». Esistono anche altri tipi molto elevati di arroventamento, nei quali agisce una forma spirituale. Il nostro Santo riferisce qui una descrizione particolareggiata del come l'anima possa venir trafitta da un serafino con un dardo o con una freccia infuocata. E' difficile ch'egli non si riferisca ad un fatto ben preciso, ossia alla trasverberazione della nostra S. Madre Teresa. Però la descrizione di S. Giovanni ci dà parecchi elementi notevoli, non registrati dalla S. Madre nel suo rapporto. Ciò non può destare meraviglia, perché essa aveva aperto interamente la sua anima a Giovanni della Croce, esprimendosi allora indubbiamente con molto meno reticenza di quello che non abbia fatto nella sua narrazione letteraria. L'anima - egli dice - « sente la sottile ferita e l'azione curativa dell'erba medicamentosa in cui era stato intinto il dardo feritore, come una acuta puntura nella sostanza dello spirito, come se le venisse trafitto il cuore dell'anima. Ed è in questo intimo punto ove s'è prodotta la ferita, situato, come sembra, in centro al cuore dello spirito, che si sente la più alta intensità del godimento. Ora, chi potrà parlarne come si conviene? L'anima infatti sente là dentro come un minutissimo grano di senapa, ma fornito di un'attività e d'una caloria formidabile, che irraggia attorno a sé un vivo e rovente fuoco d'amore. .Questo fuoco, sprigionato dalla sostanza e dalla virtù di quel punto vivo dove agisce la sostanza e la virtù curativa dell'erba, si ha l'impressione di sentirlo diffondersi sottilmente per tutte le vene spirituali e sostanziali dell'anima... Sotto la sua azione, l'anima sente il suo ardore rinfocolarsi e crescere. In questa sensazione di bruciore, il suo amore va così depurandosi da sembrarle d'essere invasa da un mare di fuoco che avvolge da cima a fondo gli elementi nelle sue vampe lingueggianti, allagando tutto d'amore. Sicché l'universo intero pare all'anima un oceano d'amore, in cui essa si trova sommersa, senza vedere né l'orizzonte né la fine di questo mare d'amore... pur continuando a sentire in sé il centro diffusore di tutto quell'amore. Riferendosi al diletto che l'anima prova in questi frangenti, non si trovano parole adatte. Si può solo dire che essa comprende ora come, nel Vangelo, il regno di Dio sia così appropriatamente paragonato al grano di senapa che quantunque tanto piccolo, per la sua caloria vitale cresce sì da trasformarsi in grande albero (Mt. 13, 31). L'anima infatti si vede trasformata in un immenso fuoco d'amore, che nasce proprio da quel piccolo punto acceso situato nel cuore dello spirito.
Poche sono le anime che giungono a tanto. Ma alcune vi sono arrivate, specialmente quelle di certi uomini la cui virtù e il cui spirito avrebbero dovuto poi trasmettersi ai loro discendenti. In realtà Dio ha sempre dato ai capi ricchezza e valore primeggianti nello spirito, a seconda della maggiore e minore figliolanza che essi avrebbero poi avuta nella loro linea dottrinaria e spirituale ». (Anche questo rilievo allude alla S. Madre Teresa).
(Edith Stein - Scientia Crucis)